Tonino Guerra Addio al poeta amato da Fellini che cantava l’ottimismo del mondo

by Editore | 22 Marzo 2012 2:29

Loading

«Mi piace se piove e anche quando la nebbia copre l’affluente del Marecchia e io ho l’impressione di vivere con me stesso». Tonino Guerra aveva voce e occhi narrativi. Aveva molti modi di raccontare – con il cinema, la poesia, l’apologo – ma specialmente gli piaceva la voce, quel perdersi nelle parole e nelle storie, seduto a un tavolo della Sangiovesa di Santarcangelo, o camminando, proprio come il suo amico Federico Fellini, che chiamava Fefe’, anche lui di pasta provinciale, di memoria smemorata e di perpetua invenzione sui fondali mobili tra la Romagna e il mare. 
Tonino Guerra è morto ieri a 92 anni nella sua Santarcangelo di Romagna (dove sabato ci saranno i funerali). «Non posso morire oggi perché è il compleanno di mia moglie», aveva confessato mercoledì sera a un amico tedesco. E ha rispettato l’omaggio a Lora, la sua compagna di origine russa, andandosene il giorno dopo.
Era uomo d’Appennino e poeta di cinema. Ti parlava al passato e al futuro, anche se conosceva la forza delle radici. Sapeva andare lontano con le parole, ma la sua idea di cinema era molto semplice: «È sempre un viaggio dentro l’uomo». In cinquanta anni di viaggi cinematografici ha fatto milioni di chilometri in compagnia di Michelangelo Antonioni, De Sica, Monicelli, Petri, Rosi, Tarkovskij, Anghelopoulos e naturalmente Fellini. Con lui fino alla cima dell’Oscar per Amarcord, anno 1974, inno davvero alla memoria, all’illusione, al sogno. A tutti gli orizzonti che può contenere lo sguardo di un ragazzino e l’avventura di un uomo.
La sua cominciò a Santarcangelo di Romagna il 16 marzo del 1920, paese di contadini: famiglia povera, strade bianche, cielo pieno di nuvole in corsa. Padre di pochissime parole e gesti misurati, mai una carezza o un bacio, ma che però «amava gli animali», e girava i paesi in camioncino, vendeva la frutta e la verdura, o la scambiava con il legname, masticando il mezzo toscano. Madre analfabeta, Penelope di nome e morbidissima di cuore. Lui le insegnerà  a scrivere. E lei ricambierà  con l’eredità  della dolcezza di carattere e di «un vaso di ciclamini rossi», che era tutto il suo avere. 
Per traversie di guerra e di destino, Tonino Guerra finisce prigioniero in Germania, campo di concentramento di Troisdorf, uscendone vivo e con le sue primissime poesie dialettali che avrebbe pubblicato a sue spese nel 1946, I scarabocc, gli scarabocchi, con prefazione di Carlo Bo (seguiranno, sempre in romagnolo, La s-ciuptèda, 1950, Lunario, 1954, I bu, 1972, introdotto da Gianfranco Contini).
«Sono arrivato alla stazione di Santarcangelo una mattina d’agosto del 1945. Credevano fossi morto». E sulla soglia di casa, attraversato il paese e gli abbracci, trova il padre che lo aspetta con il sigaro spento e le braccia conserte: «Hai mangiato?» gli chiede, nel modo più prossimo a un bacio. E poi lo saluta con un gesto e se ne va, senza voltarsi, a lavorare.
Nel 1946 si laurea in Pedagogia a Urbino, con una tesi sulla poesia dialettale. Il secondo treno della sua vita parte nel 1953 e arriva a Roma dentro a quella stessa generazione di provinciali – scrittori, registi, produttori, attori – che avrebbe ripreso a intrecciare il filo della vita nella scatola magica di Cinecittà , anche lei rinata già  in forma di commedia, ma passando per quell’altro cinema dal vero, fatto di polvere e di strada, che si sarebbe battezzato Neorealismo. 
Tonino Guerra lavora per sintonia, per assonanza poetica. Prima di Fellini, all’inizio sceglie i silenzi e lo spazio di Antonioni, i suoi deserti d’amore e di nevrosi, il vuoto che immobilizza gli occhi stupefatti di Monica Vitti in quella elegante penombra che i nuovi rotocalchi chiamano esistenzialismo. Scrive L’avventura, L’eclisse, Deserto rosso. Scrive Professione reporter. È lui, secondo il ricordo di Dino Risi, che inventa due scene memorabili: la partita da tennis senza pallina, in Blow up. E l’esplosione finale di Zabriskie Point in cui vanno in frantumi la villa, il frigorifero e tutto il consumismo d’America, sulle note monumentali dei Pink Floyd. 
Vive indaffarato e senza mai cascare nelle dondolanti reti di via Veneto, negli inganni della dolce vita, delle terrazze, delle piccole luci della mondanità  che si portano dentro il buio. Non ha il disincanto cinico del suo amico Ennio Flaiano, il rigore di Sergio Amidei, ma possiede gli spigoli non levigati dei contadini. Resta fedele alle sue abitudini provinciali. Sceglie di abitare in una casa che guarda il verde residuo d’Appennino che è Monte Mario. Passa le vacanze in Russia. Scrive molto, alla fine più di 100 film, dorme poco e male. Conosce l’insonnia di Fellini: «Si addormentava in pieno giorno, mentre giravamo in macchina per sopralluoghi, e quando si svegliava riprendevamo quel filo di parole che il sonno non aveva neanche interrotto, perché era come se facesse parte dello stesso sogno». 
Dopo Amarcord scrivono insieme E la nave va e Ginger e Fred. Disse una volta: «Federico aveva un suo modo di avvicinarsi e di allontanarsi dalle storie che voleva raccontare. Il suo osservare era un raccogliere. Aveva continuamente idee. Io ci mettevo delle parole, lui le riempiva di immagini. Era facile: avevamo gli stessi paesaggi in testa, le stesse voci, la stessa nostalgia».
Dalla fine degli anni Sessanta escono le storie di Millemosche, avventure medioevali raccontate in sette volumi insieme a Luigi Malerba. E c’entra di sicuro la nostalgia nel suo ritorno a casa, anno 1989, non più a Santarcangelo, ma a una manciata di chilometri, a Pennabilli, che guarda la valle e aspetta il vento. Negli ultimi anni scriveva molto per sé. Ha inventato luoghi, come il Santuario dei pensieri, il Giardino pietrificato, l’Orto dei frutti dimenticati. Gli piacevano i borghi abbandonati come Livano, Acquano, Ranco, invasi dall’erba e dai fantasmi. Diceva di essere diventato “il guardiano del fiume”. Non amava le telefonate, né le interviste. Diceva: «Mi chiedono in continuazione di raccontare Fellini, oppure Tarkovskij… Ma se racconto a tutti a me cosa resta?». Lo divertiva l’idea di essere diventato, per un paio di anni, la faccia e la voce di uno spot televisivo che inneggiava all’ottimismo: «Mai guadagnato così bene in vita mia». Nel 2010 è sceso a Roma per ritirare il David di Donatello d’oro alla carriera, congratulandosi, a novant’anni, che non fosse alla memoria. Una delle ultime volte ha detto: «Mi piacerebbe essere come quei monaci giapponesi che prendono i fiori caduti e li vanno a seppellire». Adesso, dopo averne scritte migliaia, la scena del fiore tocca a lui.

Post Views: 171

Source URL: https://www.dirittiglobali.it/2012/03/tonino-guerra-addio-al-poeta-amato-da-fellini-che-cantava-laottimismo-del-mondo/