Terre rare, tutti contro Pechino
PECHINO. I suoi rivali economici le reclamano a gran voce. La Cina è disposta a venderne sempre meno e presentando un conto via via più salato. Al centro dello scontro le cosiddette «terre rare», 17 metalli indispensabili nell’industria hi-tech per ottenere i quali ieri Unione Europea, Stati Uniti e Giappone hanno annunciato un esposto contro la Repubblica popolare presso l’Organizzazione mondiale per il commercio (Wto). L’accusa? Pechino – che con oltre il 90% vanta il primato mondiale dell’estrazione – pone limiti contrari alle regole della Wto all’esportazione di queste materie prime utilizzate nella produzione delle lampadine a risparmio energetico come dei missili guidati, passando per gli smart phone, le auto ibride e i pannelli solari.
Si tratta della prima volta che le tre potenze economiche si rivolgono assieme alla Wto per denunciare pratiche commerciali scorrette da parte della seconda economia mondiale. «Dobbiamo prendere in mano il nostro futuro energetico, non possiamo permettere che l’industria dell’energia metta radici in altri paesi ai quali è stato permesso di violare le regole» ha tuonato dalla Casa Bianca il presidente Obama. Il commissario europeo per il commercio Karel De Gucht, ha dichiarato all’agenzia Reuters: «Le restrizioni della Cina alle terre rare e altri prodotti violano le leggi internazionali e devono essere rimosse, perché si tratta di misure che danneggiano i nostri produttori, tra cui quelli dell’industria hi-tech e di quella verde, e i consumatori nella Ue e in tutto il mondo».
Nel 2001, al momento del suo ingresso nella Wto, Pechino si era impegnata a rimuovere il meccanismo delle “quote”, attraverso il quale controlla la quantità dell’export e i prezzi di alcune materie prime. D’altro canto, come ha spiegato a Bbc news Ivor Shrago, presidente di Rare Earths Global (un’azienda che si occupa di consulenza mineraria), gli Stati Uniti «circa 20 anni fa scelsero di non sviluppare l’estrazione delle terre rare e invece di comprare prodotti finiti».
Le ragioni di Pechino sono arrivate direttamente dall’Assemblea nazionale del popolo, di cui in questi giorni è in corso la sessione annuale. Il Quotidiano del popolo attacca: secondo i deputati «l’era in cui la Cina forniva terre rare a prezzi scontati è destinata a terminare, perché il paese deve rafforzare il controllo su queste risorse preziose a causa dei rischi ambientali» legati alla loro estrazione.
Oltre che per la loro abbondanza (1/3 delle riserve mondiali stimate), la ricerca delle terre rare si concentra in Cina per i bassi salari pagati ai minatori e perché per anni le autorità hanno chiuso un occhio di fronte alle devastazioni ambientali causate da questa corsa all’oro hi-tech. La provincia meridionale di Jiangxi, nel cui suolo è custodita la stragrande maggioranza delle riserve, ha pagato il prezzo più alto: acque dei fiumi inquinate dalle sostanze chimiche utilizzate per trattare le terre rare, miniere a cielo aperto che diffondono malattie. A Dai, tristemente noto come «villaggio del cancro», negli ultimi 20 anni nessuno dei residenti ha passato le visite di leva, mentre nel vicino Wuxing a decine di bambini sono state riscontrate quantità allarmanti di piombo nel sangue.
Nel gennaio scorso la Wto aveva dato torto alla Cina in un giudizio simile: Unione Europea, Stati Uniti e Messico, nel 2009, si erano rivolti all’organizzazione internazionale per denunciare il sistema delle “quote” imposto da Pechino su alcune materie prime come bauxite, coke e zinco. Anche in questo caso Pechino aveva provato a difendere le limitazioni all’export sulla base di preoccupazioni ambientali.
Lo scontro sulle terre rare fa salire la tensione con l’Ue, che da mesi cerca invano di ottenere da lla Repubblica Popolare centinaia di miliardi delle sue riserve in valuta estera per provare a tamponare il debito degli Stati in crisi. E anche con gli Stati Uniti, dove Obama – che ormai è in campagna elettorale in vista delle presidenziali del novembre prossimo – recentemente ha istituito una nuova agenzia per il commercio nel cui mirino è subito finita la Cina.
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