Tempi e Veti, lo Straniero non Investe

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MILANO — Undici anni di (inutile) attesa per i permessi del rigassificatore di Brindisi sono l’eccezione e non la regola. Ma anche la regola non è per niente incoraggiante: 258 giorni, in media, è il tempo necessario per avere un permesso di costruzione in Italia. Lo certifica l’ultimo rapporto «Doing business» della Banca mondiale. Nella statistica c’è dentro di tutto, dalle domande che giustamente meritano lunghi tempi di attesa (per motivi ambientali, ad esempio) fino ai normali permessi per mettere in piedi un piccolo progetto con tanto di posti di lavoro. Che, soprattutto oggi, non meriterebbe di aspettare quegli otto mesi e mezzo calcolati dalla Banca mondiale, suddivisi in ben 11 permessi necessari prima di arrivare alla meta.
Ma non si tratta solo di costruzioni. L’Italia, nella lista dei Paesi dove è meno complicato fare affari e aprire un’azienda, è adesso all’ottantasettesimo posto su 183, quasi a metà  classifica tra il primato di Singapore e la maglia nera del Ciad. Per un Paese del G8 non è il massimo. Tra le nazioni davanti a noi, c’è il solito club scandinavo dei «primi della classe», dalla Danimarca alla Norvegia. Evidentemente, un forte Stato sociale o una consistente normativa in difesa dell’ambiente — tipici di Oslo e Copenaghen — fanno bene alla libertà  d’impresa. Prima dell’Italia si classificano anche altri Paesi come le isole Tonga, la Bielorussia e lo Zambia, in un calcolo generale dove non entrano solo le libertà  economiche, ma anche l’accesso al credito, la semplicità  del Fisco e l’efficienza dei tribunali. Sono tutti fattori che aiutano a investire soprattutto chi, dall’estero, vuole costruire una nuova attività  invece di limitarsi ad acquisirne una esistente.
Meglio, in ogni caso, essere alla posizione 87 che al penultimo posto. Che è quello assegnatoci dall’Ocse nel «ranking» europeo degli Stati che, tra il 2001 e il 2010, hanno accolto maggiori investimenti esteri (in rapporto al prodotto interno lordo). L’1,2% dell’Italia batte solo lo 0,8% della Grecia. Honni soit qui mal y pense.
«Le imprese internazionali non sono spaventate dalle difficoltà  delle varie procedure (hanno avvocati e professionisti per pensarci), ma dall’incertezza nel disegnare il percorso d’investimento»: lo spiega Giuseppe Recchi, presidente del Comitato investitori esteri di Confindustria. Tanto che — nelle multinazionali — a volte sono i responsabili per l’Italia a «bloccare» un progetto d’investimento della casa madre nella penisola. Troppe incertezze, troppi rischi di diventare il «capro espiatorio» per un insuccesso di tutto il gruppo. 
Così, alla fine, ci ritroviamo con un volume di investimenti esteri che vale un terzo di quello francese. Italia e Francia sono due Paesi per molti versi simili, commenta Recchi: «Quel 66% di differenza si spiega quindi soprattutto con il “costo di attrazione” che noi scontiamo».
Naturalmente non mancano i casi in controtendenza. Dove, piaccia o no, l’estero investe e avanza. Come è successo nel credito: il numero dei dipendenti delle filiali di banche estere nel nostro Paese è cresciuto del 10% nel 2010 (dati dell’Associazione fra le banche estere in Italia). Passando al «venture capital» e al «private equity», dal 2010 l’Italian Business & Investment Initiative ospita a New York due simposi l’anno offrendo ad oltre 250 investitori americani una piattaforma per incontrare e conoscere le aziende hi tech italiane. E gli esempi non si fermano qui, a cominciare da chi sta tornando nel Bel Paese per comprare «a sconto».
Sopra tutto, però, c’è un numero che più di tanti altri potrebbe riassumere lo «svantaggio competitivo» della «destinazione Italia»: 1.210. Sono i giorni (medi) necessari per far valere e rispettare un contratto. E quarantuno sono le procedure coinvolte. C’è poi chi accusa il peso del Fisco o la complessità  delle leggi. In ogni caso, resta il fatto che gli investimenti — esteri o italiani che siano — non sono una semplice «roba da ricchi»: per chi guida le aziende o ha i soldi per aprirne di nuove. Ma, oltre agli utili, possono portare lavoro e assunzioni. «Di giovani», come ha detto il presidente Giorgio Napolitano qualche settimana fa, augurandosi maggiori investimenti esteri in un Paese dove la disoccupazione «under 24» è arrivata al 31,1%.


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