Supermartedì, vince Romney ma Santorum non si arrende repubblicani sempre più divisi

by Editore | 8 Marzo 2012 8:02

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New York – Mitt Romney «deve decidere al più presto il da farsi per resuscitare una candidatura letargica». Lapidario, il giudizio del New York Times dà  la misura di un Supermartedì che non ha risolto la gara delle primarie: anzi ha confermato tutti i dubbi sul “semi-vincitore”. Unica certezza, la deriva a destra del dibattito fra i repubblicani regala crescenti opportunità  a Barack Obama per una vittoria finale a novembre. Perfino il Wall Street Journal di Rupert Murdoch parla di una «guerra intestina di logoramento» nella destra. 
Certo, ai punti è Romney ad aver vinto la contesa del 6 marzo in 10 Stati. Lui ne ha portati a casa 6, il suo rivale Rick Santorum solo tre, Newt Gingrich si è limitato a conquistare la Georgia che è il suo Stato Natale. Quindi Gingrich ha ormai una strategia di “sopravvivenza regionale” puntando sui prossimi Stati del Sud come il Texas. Nel conteggio dei delegati Romney ne ha accumulati dall’inizio delle primarie 364, l’inseguitore più vicino che è Santorum ne ha 164. Ma la maggioranza assoluta resta lontana, è a quota 1144, e mancano i più grossi Stati cioè California, Texas, New York. A quest’epoca nel 2008 John McCain aveva già  un vantaggio soverchiante. 
E non è solo la logica contabile a rivelare la fragilità  di Romney. L’ex mormone, ex finanziere di private equity del gruppo Bain Capital, ex governatore del Massachusetts, da una primaria all’altra continua a soffrire di una costante: ben oltre la metà  della base repubblicana, e spesso una maggioranza dei due terzi, sceglie con ostinazione «chiunque non sia Romney». La destra militante, convinta e arrabbiata, dagli integralisti religiosi agli anti-Stato e anti-tasse del Tea Party, cioè lo zoccolo duro che si fa valere nelle primarie, si è innamorata di volta in volta di Michele Bachmann, Herman Cain, Rick Perry, Gingrich e infine Santorum, pur di non votare per il «milionario algido». Romney cumula due handicap: la totale mancanza di empatìa che gli fa commettere gaffe assurde per l’ostentazione indifferente della sua ricchezza (è la sindrome di Maria Antonietta); e un passato politico moderato-pragmatico per cui nel Massachusetts adottò una riforma sanitaria identica a quella di Obama (quindi “socialista” per la sua base). 
Perciò regge il “Davide” Rick Santorum, pur avendo fondi minuscoli rispetto al suo rivale per finanziare gli spot televisivi, e uno staff organizzativo artigianale in confronto a quello del “Golia” Romney. L’italo-americano, cattolico ultra-integralista, martedì ha portato a casa tre Stati: il Tennessee, l’Oklahoma e il North Dakota. Ha dato del filo da torcere nell’Ohio dove alla fine la vittoria di Romney si riduce a soli diecimila voti su oltre un milione. Romney sperava di chiudere la partita, di tacitare tutti i dubbi sulla sua forza, di potersi finalmente concentrare sulla sfida che conta e cioè quella contro Obama. Invece proprio Obama è il vincitore indiscusso di questa tornata di primarie: meglio di così non poteva andare, per il presidente in carica. Santorum è galvanizzato dal buon risultato e andrà  avanti con più ardore di prima. La gara di resistenza di Santorum ha un effetto pernicioso sui repubblicani: continua a tenerli concentrati sui temi “valoriali” come l’aborto. E’ rafforzando il proprio profilo di “candidato della religione”, che Santorum continua ad attirare verso di sé la base più radicale del partito repubblicano, in particolare i cristiani evangelici (che lo votano più dei cattolici). Così facendo, Santorum costringe Romney a inseguirlo sul suo terreno, con dichiarazioni sempre più oltranziste. 
La gara per rassicurare i puri e duri della base repubblicana, allontana però tutti i candidati dall’opinione centrista. Spaventa le donne, che ormai per il 55% si dicono decise a rieleggere Obama. Anche in politica estera, la polarizzazione agevola Obama: tra i repubblicani è una corsa a chi si schiera con più decisione in favore di Israele, una gara a invocare interventi militari contro l’Iran e perfino in Siria: tutti temi che spaventano l’elettorato indipendente e moderato, stanco di guerre. «La guerra non è casual, non è un gioco, che ne parla dica agli americani quali saranno i costi», ha intimato Obama nel giorno stesso delle primarie. Romney per la sua storia personale sarebbe portato ad assumere posizioni ben più pragmatiche e ragionevoli – perciò l’establishment repubblicano si sta schierando quasi tutto con lui – ma non può “gettare la maschera” finché è incalzato dalle accuse di Santorum di non essere un “vero” conservatore. 
Questo Supermartedì non ha eliminato dall’orizzonte lo scenario più caotico, di una convention repubblicana senza una maggioranza assoluta. C’è il rischio che a fine agosto, quando il partito si riunirà  a Tampa (Florida) per incoronare lo sfidante di Obama, Romney arrivi con una maggioranza solo relativa di delegati. In quel caso gli altri delegati (quelli raccolti da Santorum più Gingrich più Ron Paul) potrebbero teoricamente formare una coalizione ed eleggere un anti-Romney.

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