by Editore | 10 Marzo 2012 16:18
Nell’estate del 1989 John Ausonius è «un uomo nel fiore degli anni: trentasei», «il ritratto del successo e della fiducia in se stesso», abituato a indossare abiti fatti su misura e a spostarsi su una costosa macchina sportiva giapponese. Lavorando duramente come tassista nel corso dell’anno precedente, ha messo da parte un capitale sufficiente per speculare alla borsa di Stoccolma. Guadagna con facilità alte somme di denaro. Sente di rientrare appieno nella definizione più popolare nei secondi anni Ottanta: è uno yuppie, uno young urban professional. Crede nella libertà individuale, nell’iniziativa privata, è contrario al parassitismo sociale, ce l’ha con quei socialdemocratici che sono «quasi riusciti a distruggere il paese con le loro fottute chiacchiere sull’egualitarismo e sul salario uguale per tutti».
Nessuno, men che meno lui – scrive il giornalista svedese di origini ungheresi Gellert Tamas ne L’uomo laser. C’era una volta la Svezia (Iperborea, traduzione di Renato Zatti, pp. 504, euro 19,50) – poteva immaginare che neanche due anni dopo, il 3 agosto 1991, avrebbe sparato all’eritreo David Gebremariam, inaugurando una serie di attentati «che avrebbero terrorizzato un’intera città e condotto la più vasta indagine della polizia svedese dopo l’assassinio di Olof Palme».
Nel suo romanzo-inchiesta Gellert Tamas ricostruisce in modo esemplare la storia di John Ausonius sulla base di un’enorme mole di fonti: oltre quaranta ore di interviste all’«uomo laser» (dal nome di una delle arme usate), 2.500 pagine di indagine preliminare, altre 20.000 dello scarto d’indagine, 800 articoli giornalisti, 200 servizi televisivi e radiofonici. Una massa eterogenea di materiali, ordinati – come nota Goffredo Fofi nella postfazione – con scrupolosa onestà , distribuiti secondo un’efficace alternanza tra piani temporali e sezioni tematiche che ricorda il montaggio cinematografico.
Sono due, in particolare, le coordinate su cui insiste Gellert Tamas, tra i maggiori esperti dell’estrema destra svedese: da una parte la vicenda personale di Wolfgang Alexander John Zaugg, nato il 12 luglio del 1953 a Stoccolma da padre svedese e madre tedesca, il quale a trentatré anni decide di cambiarsi nome in John Ausonius; dall’altra, la storia di un paese che vive un momento di insicurezza economica e di cambiamento, un periodo in cui «la socialdemocrazia non sembrava avere più risposte chiare, e la gente aveva voglia di sentire qualcuno che promettesse soluzioni semplici a problemi complessi», come quello dell’immigrazione.
Le due storie si condizionano reciprocamente, finiscono per intrecciarsi, e vengono ripercorse dall’inizio, alla ricerca di indizi, prove, inclinazioni che possano rendere più comprensibile la psicosi individuale di John Ausonius e il suo odio irragionevole, sconfinato, totalizzante verso gli immigrati, quei «maledetti bastardi scansafatiche», a cui vuole dare una lezione, obbligandoli ad andarsene. L’odio verso gli stranieri è però anche un odio verso se stesso: il primo ricordo cosciente di Ausonius risale a quando, all’età di tre o quattro anni, in un sobborgo di Vallingby una testa color carbone – la sua – «spiccava tra le numerose zazzere chiare degli altri bambini». Quel “piccolo negro” che non poteva giocare con gli altri bambini sarebbe cresciuto sentendosi escluso, e dopo una educazione improntata a ordine, disciplina, obbedienza, a vent’anni il figlio perfetto, serio e ubbidiente sarebbe diventato testardo, aggressivo, sempre più chiuso ed egocentrico, sempre più «stanco di avere un nome diverso e di essere diverso».
All’inizio degli anni Ottanta, con la morte del padre la sua instabilità psichica comincia a presentare il conto. Perde il posto di lavoro. Vive per strada. La sua vita è tutta confusione e tenebre. Nega di avere problemi. Si nutre di un’aggressività cieca. Commette i primi reati: aggressioni, minacce, molestie, ingiurie, truffe, vilipendio. Le istituzioni non ne riconoscono la debolezza. Finisce in carcere. Ne esce e torna a lavorare. Riesce a guadagnare bene. È soddisfatto di sé. Ma alla fine del 1989, il tracollo finanziario lo investe, e nell’estate del 1991, inizia la caduta libera, definitiva.
Una caduta che è accompagnata da quella di tutta la Svezia, un paese che cede facilmente alle scorciatoie populiste e razziste dei nuovi movimenti e partiti xenofobi della destra estrema, un paese di politici opportunisti o cinici, di media animati dal «bisogno quasi compulsivo di semplificare la realtà , cancellare le sfumature e presentare immagini schematiche, in bianco e nero». Una società divisa in «noi» e «loro», in cui John Ausonius si riconosce e trova conferme. Una società che è anche la nostra, sembra ammonire Gellert Tamas, che oggi alle 12 incontrerà Goffredo Fofi all’Auditorium di Roma, nell’ambito di “Libri come”.
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