Storia di una generazione
Prima di leggere questo libro, già conoscevo il suo protagonista, un fantasma incontrato in emeroteca. Senza sapere nulla di lui, ho potuto parlarci meditando gli articoli che scrisse nel biennio 1977-1978, quando raccontò sulle pagine di la Repubblica il movimento del ’77 e le violenze metropolitane di autonomia operaia, la tragedia Moro e il diffondersi del terrorismo.
Le sue cronache avevano il pregio di portare il lettore dentro gli avvenimenti, insieme con le passioni che ne animavano la scrittura. Essa partecipava al mondo che descriveva senza nascondersi dietro il fantasma ipocrita della neutralità : era consapevolmente militante, ma al tempo stesso fredda e asciutta, con un gusto per la vivisezione delle dinamiche del potere, all’improvviso squarciata dall’irrompere di una disperata vitalità . “Pasoliniana”, se l’aggettivo non fosse abusato, da leggersi con una canzone di Rino Gaetano in sottofondo, cui lo accomunava non solo l’età e le origini calabresi, ma il sarcasmo e il disincanto.
Quando scoprii che era nato nel 1949, e dunque contemporaneo ai movimenti e agli eventi che raccontava, mi venne spontaneo paragonarlo al Nanni Moretti di Ecce bombo. Come il regista, era parte della generazione che descriveva e dotato di un terzo invisibile occhio che gli consentiva di vivere guardandosi vivere, sviluppando profondità di sguardo e corrosive capacità d’analisi. Come dichiarò in un’intervista, egli cercava di essere «un giornalista critico verso la mia professione e, dal punto di vista politico, un militante critico verso la mia stessa area di appartenenza».
Anche per questa ragione rimasi colpito, quando scoprii che le Brigate rosse lo avevano minacciato di morte nel 1979 e perciò tornai a riflettere sui suoi articoli con un’attenzione nuova, per cercare di comprendere il motivo di quella sentenza. Il libro di Tommaso De Lorenzis e Mauro Favale L’aspra stagione (pubblicato da Einaudi Stile Libero, pagg. 272, euro 18) approfondisce la personalità e l’attività di Rivolta collocandola nel contesto umano, professionale e politico in cui visse, e consente di scoprire, tra l’altro, che analoghe minacce gli erano già arrivate da parte di autonomia operaia. Al cosiddetto “partito armato” dispiaceva non solo che i suoi articoli fossero rigorosi e informati, ma soprattutto che provassero a contrastare il tentativo dell’autonomia di egemonizzare il movimento del ’77 e quello delle Brigate rosse di infiltrarlo, un rischio assai presente a Roma.
Dalla lettura del libro emerge come Rivolta abbia interpretato meglio di tanti altri un tratto esistenziale che accompagnò i primi anni di vita di la Repubblica, ossia l’idea di un giornale scritto da giovani per i giovani, in cui ogni cronaca fosse anche l’autobiografia di colui che raccontava la realtà . Sarà proprio il vitalismo di Rivolta, l’impegno a vivere fino in fondo le storie che riferiva a renderlo rappresentativo dell’evoluzione di una generazione e della crisi di quel movimento. Il tragico incontro personale con la droga lo indusse a scrivere, tra i primi in Italia, sulla diffusione, il commercio e la realtà della tossicodipendenza. Articoli di notevole spessore in cui cronaca e vita, reportage ed esperienza continuarono a confondersi fin quando egli da “cronista del movimento” divenne il “cronista di se stesso”, della propria crisi esistenziale e psicologica in cui filtrava il vissuto comune a tanti suoi coetanei.
Quando, nella primavera del 1978, durante il sequestro di Aldo Moro, la Repubblica scelse la strada civile della lotta senza quartiere al terrorismo, racconta il libro che Rivolta e quelli come lui sospesi tra due mondi si trovarono progressivamente sempre più isolati nel giornale. Al giornale come nella vita. Eppure, negli anni in cui le migliori penne della sua generazione abbandonavano la militanza rivoluzionaria nei quotidiani e nei partiti dell’estrema sinistra per lavorare nei principali gruppi imprenditoriali italiani che fino a qualche tempo prima avevano ferocemente contestato, Rivolta imboccò una strada opposta che lo rende, in qualche misura, unico.
Rifiutata un’offerta dell’Europeo, scelse di collaborare con Lotta Continua, ove continuò a scrivere reportage sulla guerra in Afghanistan e a progettare inchieste sui cambiamenti della società meridionale. La sua, però, era una corsa sempre più solitaria verso il tramonto e non riuscì a sfuggire alla scimmia invisibile che lo divorava, la penna nel taschino, lei appoggiata sulla spalla: l’11 febbraio 1982, nel corso di una crisi di astinenza, precipitò dalla finestra di casa sua e, dopo qualche giorno di coma, morì a soli 32 anni.
Di lui restano centinaia di articoli appassionati, il ricordo di chi lo ha amato e gli è stato amico o collega, il rimpianto per le tante esperienze umane e professionali che avrebbe potuto vivere grazie al suo talento e la misteriosa capacità di rappresentare, in anticipo sui tempi, l’estraniamento di una parte della sua generazione, passata, senza colpo ferire, dall’iperpolitica all’antipolitica, dalla rivoluzione al riflusso: un destino che, siamo sicuri, Rivolta avrebbe saputo raccontare con la consueta lucidità e partecipazione, se solo ne avesse avuto il tempo.
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