Stile Monocle: “Con la mia rivista aiuto a riscoprire il piacere della carta”

by Editore | 26 Marzo 2012 2:49

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«I giornali e le riviste hanno un vantaggio di cui non sempre si rendono conto sui media digitali: gli iPad sono tutti uguali, dall’esterno non si può sapere cosa uno ci sta leggendo, mentre se hai in mano la Repubblica, la Gazzetta dello Sport o il Foglio, chiunque capisce al volo che tipo di persona sei». Come rivelazione equivale all’uovo di Colombo, ma il suo autore crede che possa soffiare nuova vita nel giornalismo in cui si ostina a credere: quello stampato su carta. Figlio di un campione di football canadese e di una pittrice estone, inviato di guerra in Afghanistan per un settimanale tedesco, nel 1994 Tyler Brà»lé tornò a Londra con le cicatrici delle ferite riportate al fronte e la determinazione a trovare un lavoro meno rischioso. Da allora si è messo a inventare mensili patinati. Il primo, Wallpaper, è diventato un culto per la generazione dei “nomadi globali”, come si autodefinisce: «Gente con i piedi in vari paesi e la necessità  di consigli su uno stile di vita sofisticato», spiega. Lo ha venduto al gruppo Time dopo appena un anno, ricavandoci un bel gruzzolo. Il secondo è Monocle, un cocktail tra «l’intelligenza dell’Economist e l’eleganza di GQ», sintetizza il suo fondatore e direttore. In cinque anni ha avuto un tale successo da generare altre pubblicazioni (Monocle Alpino – sull’alta montagna), una radio online di news e musica (Monocle 24), un negozio web di abbigliamento, accessori, cancelleria firmata. Ogni numero inventa o scopre qualcosa, un trend, una moda, un design, un modo di vivere.
Come è nata l’idea di Monocle?
«Viaggiando. Passavo un sacco di tempo negli aeroporti e notavo il tipo di pubblicazioni che i viaggiatori come me acquistavano. Così mi è parso di intravedere una nicchia, uno spazio da riempire tra i settimanali intelligenti e quelli di lifestyle. Fondendo le due cose abbiamo scoperto che lo spazio era più di una nicchia e continua a espandersi».
Perché un nome così antiquato?
«È vero, nessuno porta più il monocolo all’occhio. Ma volevo segnalare che questa è una sfida per difendere il giornalismo vecchia maniera: cartaceo, con lunghi articoli, su temi anche complessi, il contrario di quello che spesso ti dà  il web, informazione digitale, breve, semplificata».
Il giornalismo cartaceo però è in crisi: sopravviverà  a Internet?
«Penso che ci sia una dose di autoflagellazione: se chi lo fa è il primo a non crederci, è chiaro che è condannato a morire. E poi c’è una dose di mancanza di fantasia, di capacità  di innovare. La regola di tanti giornali e riviste in crisi è: tagliare i costi e imitare il web. Ma allora sarà  sempre meglio il web. Invece occorre proporre qualcosa di diverso da Internet, se vuoi avere una possibilità  di farcela».
Nel suo Monocle la forma pare importante quanto la sostanza.
«Non devo certo insegnare a un italiano che grafica e design sono fondamentali per presentare bene quello che vuoi dire. E non è tutto. Io ho sempre in tasca il mio smartphone e il mio tablet, però resto fatto di carne e ossa: dunque continuo a provare il piacere di toccare una bella carta patinata, di sfogliare una pagina, di tenere in mano un bell’oggetto. Certo, anche Steve Jobs ha capito l’importanza del piacere estetico, ma un giornale non ha meno possibilità  di soddisfarlo di un computer».
Chi sono i lettori di Monocle?
«In fondo gli stessi di Wallpaper, la mia rivista precedente. Nomadi globali, li chiamo, ma non sono necessariamente nomadi: magari vivono tra Bolzano e Venezia, ma vendono vino dell’Alto Adige in Cina e Brasile, sanno spostarsi tra vari mondi e vari ambienti, amano il luogo in cui vivono ma sono curiosi di capire cosa c’è altrove. È un pubblico locale e globale, che si riconosce nel proprio villaggio e nell’Europa, anzi nelle due sponde dell’Atlantico».
E cosa offre a questo pubblico?
«Al di là  degli articoli, del contenuto, offro loro un brand, un marchio in cui possono identificarsi e di cui si fidano. Questo è il vero segreto del successo di Monocle e il successo di ogni giornale o rivista che funziona nel mondo d’oggi. Beninteso, anche un iPad rappresenta un brand, e in questo sta il successo della Apple. Ma un uomo o una donna con un iPad in mano sono imperscrutabili: visti da fuori, non sai cosa leggono o cosa fanno, soprattutto non sai cosa pensano, che tipo di persone sono. Invece metti un giornale di carta in mano a una persona, che sia Repubblica, la Gazzetta dello Sport o il Foglio, e saprai immediatamente chi è quella persona: che interessi ha, che genere di vestiti preferisce, come passa le vacanze, che libri legge, che musica ascolta, che film ama, per chi vota».
Un vantaggio per gli inserzionisti pubblicitari.
«Non c’è dubbio. Ma anche un sintomo dello stretto rapporto esistente tra chi fa il giornale e chi lo legge: c’è identità  di vedute, potrebbero partire insieme per un viaggio e trovarsi bene, diventare amici. Quando un giornale diventa un marchio di successo si trasforma in un club, con un senso di reciproca appartenenza che è assai difficile spezzare: puoi non essere d’accordo su tutto, ogni tanto puoi litigare, ma quelli sono i tuoi compagni di viaggio e non li cambieresti». 
La stessa formula vale per radio Monocle 24?
«Anche la radio, come i giornali di carta, è un mezzo di comunicazione che veniva dato per spacciato, mentre secondo me ha ancora molto da dare. La nostra funziona 24 ore su 24, si riceve solo via web su computer, tablet o telefonino, ha un 50 per cento di notiziari e dibattiti, un 50 per cento di musica, e la stessa aspirazione della rivista patinata: diventare un club, una cosa sola con i suoi ascoltatori».
Lei predica il giornalismo vecchia maniera ma scrive una rubrica sul Financial Times del sabato chiamata Fast Lane (Corsia Veloce): insomma va piano o va forte?
«La rubrica è una specie di diario della mia vita, che effettivamente è piuttosto di corsa. Ma dirimpetto, sulla stessa pagina, c’è la rubrica di un altro columnist intitolata Slow Lane, sulle bellezze della natura e della vita al rallentatore. E io apprezzo anche quelle. Contraddirsi è il destino della nostra generazione: non viviamo più in un posto solo e non andiamo a una sola velocità ».

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