Sindrome di Down Si allunga l’aspettativa di vita, la nuova sfida è sull’autonomia

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Francesca fa la segretaria all’ospedale Gaslini di Genova, Mario è magazziniere a Venezia, mentre Vittorio si è conquistato un posto da bibliotecario a Torino. Sono storie di chi ce l’ha fatta, persone con sindrome di Down che hanno un lavoro. Qualcuno è riuscito anche a laurearsi come Giusi e Pablo. Ci sono coppie che convivono, in piena autonomia. Ma non per tutti è così. A volte i percorsi sono più complicati. Domani, 21 marzo, si celebra la Giornata mondiale delle persone con sindrome di Down e Coordown, il Coordinamento nazionale delle associazioni, ha lanciato “Credi ancora che l’integrazione non sia possibile?”, una campagna contro pregiudizi e luoghi comuni. 
Oggi in Italia le persone con sindrome di Down sono più di 38.000. Secondo stime recenti negli ultimi anni non sono diminuite in modo significativo. «Questo soprattutto perché si fanno figli più tardi. Le donne si sottopongono a screening prenatali, ma spesso decidono di andare avanti con la gravidanza, anche se scoprono che il bimbo è Down – dice Aldo Moretti, direttore Scientifico del Centro italiano Down – Non abbiamo dati nazionali, ma dalle stime nelle diverse regioni scopriamo che la media di nuovi nati con sindrome di Down non si è discostata in maniera significativa da quella degli anni ’70, quando non si facevano controlli». Che lo si scopra durante la gravidanza o dopo, la nascita di un bambino Down resta comunque un momento delicato per i genitori. «Quando il piccolo arriva è un momento difficile per la famiglia. Lì per lì ci sono tante paure e bisogna fare i conti con una realtà  che non si conosce. Con il tempo si impara a conoscere il bambino e nasce il rapporto con lui. Incomincia il cammino insieme», spiega Franca Bruzzo, segretario nazionale del Coordown, e madre di una giovane Down. 
Il percorso per le madri e i padri è lungo, fatto di difficoltà , gioia e amore. Un rapporto che secondo le statistiche dura sempre di più a lungo. Oggi il 61% di Down ha più di 25 anni. «L’attesa di vita che negli anni ‘70 era di circa 24 anni, oggi si attesta a 60 anni. Questo dato estremamente importante, derivante da una maggiore capacità  da un lato e attenzione dall’altro del mondo sanitario, comporta anche l’apertura di nuove prospettive e bisogni. In passato molti Down morivano nei primi anni di vita, spesso per le malformazioni cardiache, che ora sono facilmente operabili», spiega Moretti, «I Down hanno le stesse patologie del resto della popolazione, con un’incidenza più alta in età  adulta. In più c’è il rischio di demenza, più frequente nei Down, alcune forme degenerative sono legate al fatto che invecchiano prima», dice Moretti.
Persone con sindrome di Down che vivono di più e genitori sempre più anziani. Con il tempo chi li accudisce non ci riesce più. «All’orizzonte ci sono situazioni in cui la famiglia non può gestirli e per questo è importante dare loro l’autonomia – conclude Moretti – Questo anche per prevenire certe forme di demenza. Se l’individuo non è integrato, regredisce». Sull’integrazione si lavora fin dai primi anni di vita. «La scuola è il mezzo per la socializzazione e per lo studio. Lo stimolo tramite i coetanei è importante. È importante non fare tagli in questo settore», dice Bruzzo. Le ore di scuola sono importanti perché servono a stimolare la capacità  di interagire e di comunicare. E anche lo sport aiuta. Obiettivo: riuscire a trovare una strada al di fuori dalla famiglia.


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