by Editore | 8 Marzo 2012 9:04
Segnali apparentemente opposti — permanenza di una atavica possessività selvaggia, nel primo caso, affermazione di una conquistata padronanza di sé, nell’altro —, sono invece, a guardar bene, rivelatori di una libertà controversa che si fa strada lentamente tra molti ostacoli materiali e psicologici, stretta dentro le contraddizioni di un dominio che ha visto confondersi logiche d’amore e logiche di guerra.
Se nei rapporti di coppia, negli affetti famigliari, persistono annodamenti evidenti tra spinte all’autonomia e vincoli di dipendenza, strappi improvvisi e riappacificazioni, più difficile è vedere la sottile linea di confine che passa tra la possibilità , sicuramente maggiore che in passato, che hanno oggi le donne di «scegliere» e l’autonomia profonda da modelli interiorizzati che rende «libere di scegliere». Circa quarant’anni fa faceva il suo ingresso nella vita pubblica una generazione destinata a cambiare le categorie tradizionali della cultura e della politica, e ne nasceva al medesimo tempo un’altra che per effetto di quella «rivoluzione» avrebbe potuto vivere, se non in modo meno problematico, sicuramente meno oppressivo la propria appartenenza al sesso femminile. L’intuizione più originale di quegli inizi è stata rendersi conto che l’esclusione delle donne dalla vita pubblica, e la minorità giuridica, politica, culturale che ancora scontano per questo, comincia nel momento in cui sono state identificate col corpo — corpo che genera e corpo erotico —, sottomesse e sfruttate come «risorse» naturali, costrette a vivere in funzione dell’uomo e attraverso l’uomo. La violenza più insidiosa, perché meno visibile, apparve allora la collusione involontaria tra la vittima e l’aggressore, accomunati dalla stessa visione del mondo.
La generazione delle figlie e delle nipoti gode oggi di diritti fino a pochi decenni fa impensabili, ma che rischiano di rimanere solo formali quando urtano contro un sentire intimo che conserva abitudini, pregiudizi, adattamenti inconsapevoli al passato. Altrettanto si può dire di una libertà che vede il corpo e le attrattive che l’immaginario maschile vi ha attribuito emanciparsi dalla repressione e da un controllo secolari, senza perdere per questo la possibilità di tornare a essere «oggetto» «complemento» di un ordine esistente. Si può leggere in questo senso, per certi aspetti, anche il «talento femminile» richiesto oggi come «valore aggiunto» dalla nuova economia.
Usare prerogative come la seduzione e la maternità , che l’hanno resa desiderabile ma anche potente e minacciosa agli occhi dell’uomo, e tentare di ricavarne un vantaggio proprio, qualunque esso sia, significa per la donna farsi «soggetto» della propria vita.
La domanda che si pone allora è un’altra: siamo davvero libere o stiamo solo ribaltando quella che è stata un’imposizione in una scelta? Come è possibile che un modello obbligato di sopravvivenza si trasformi all’improvviso nel traguardo massimo di realizzazione propria? Se vogliamo chiamarla comunque libertà , riconosciamo almeno che è piuttosto ambigua.
*scrittrice e saggista,
con una lunga militanza
nel movimento femminista
milanese
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