Se le maestre bandiscono l’amico del cuore fra i banchi

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Ognuno di noi, nel ripensare agli anni da bambino, ripercorre le immagini dei ricordi. Ci sono genitori e fratelli, case, spiagge, viali, alberi dove ci si è arrampicati, giochi e palloni. E più di tutto, appaiono nitidi dei primissimi piani di bambine e bambini che ci hanno fatto battere il cuore più forte all’improvviso, o che, al contrario, ci hanno aiutato a ritrovare i battiti costanti, con la sicurezza della complicità . Coetanei di cui ci siamo innamorati per la prima volta, e altri che sono stati il nostro primo amico. Che, appunto, si chiamava «l’amico del cuore».
Adesso arriva la notizia che nelle scuole inglesi sempre più maestre adoperano la politica del «no best friends»: tendono cioè a scoraggiare le amicizie esclusive, per tenere sempre aperta la compagnia di gruppo. Evitando le preferenze. Insomma, se ricordate come siete stati con il vostro amico del cuore, vi stanno chiedendo di non dire più a bassa voce e con gli occhi a terra il vostro primo grande segreto a qualcuno di cui vi fidate ciecamente. Ma di scandirlo a voce alta a una comunità . 
Perché? È un metodo suggerito da psicologi; una nuova formula per crescere meglio: le grandi amicizie dell’infanzia sono destinate a finire. Le strade si dividono, le vite in comune vengono separate da vari eventi — la fine dei cicli scolastici prima di tutto. E si soffre, perché la separazione è traumatica.
Non c’è che dire, hanno ragione gli psicologi inglesi: il trauma della separazione c’è. Solo, non si capisce bene perché debba essere aggirato. È come dire a un atleta della corsa a ostacoli: c’è un altro modo per gareggiare, quello di girare intorno a ogni singolo ostacolo, senza essere costretti a saltarlo (a imparare a farlo). L’atleta lo troverà  più facile, si allenerà  così, e il suo umore sarà  migliore. Ma poi, il giorno della gara, quando gli ostacoli si presenteranno inevitabili, non li saprà  saltare.
In fondo, se esistono gli amici del cuore e i primi incomprensibili innamoramenti è perché hanno una funzione doppia, che riguarda il presente e riguarderà  il futuro. La prima, serve a immettere nella vita organizzata, costante e scandita di un bambino, un accrescimento improvviso della felicità  e della infelicità . Che poi sono i momenti o i periodi che non si dimenticano più per tutta la vita. La seconda, è quella di aver messo in cascina, per il futuro, le conseguenze di due sentimenti così opposti. Di aver imparato che le cose belle possono finire — ma anche che quelle terribili sono destinate a finire. 
Alla ragazzina che mi ha lasciato una mattina d’estate solo su una panchina del parco, a piangere, dopo avermi detto che non poteva fidanzarsi con me perché a lei piacevano i ragazzi più grandi, io sono grato per un gran numero di cose: perché mi ha insegnato a soffrire per amore, ma anche perché mi ha insegnato che, nonostante pensassi che quel dolore e quel pianto non sarebbero finiti mai più, poi sono finiti. E adesso, quando soffro per una separazione, mi ci immergo nella sofferenza e so che, nonostante il dolore, ogni giorno che passa è un avvicinamento ulteriore alla salvezza. Senza quella ragazzina, oggi sarei più fragile e inconsapevole.
Allo stesso modo, all’amico che si è seduto accanto a me su quella panchina per consolarmi, sarò grato per tutta la vita, anche se poi è sparito da un giorno all’altro. Oltretutto, è come se gli studiosi avessero dimenticato il ricordo delle loro separazioni traumatiche: a ripensarle da qua, quando si è diventati adulti anche grazie a quei dolori, hanno una loro significativa dolcezza. 
Gadda la chiamava la «primavoltità ». E non c’è un’altra età  per sperimentarla. Quindi, evitare il trauma della separazione è come non crescere per davvero. 
E c’è ancora un altro elemento, tutto nuovo, trascurabile forse, ma non per questo meno consistente: rinunciando al «best friend», ci si priverebbe di quel piacere — o trauma, questo sì, definitivo! — di ritrovarlo, molti anni dopo, mentre ti chiede l’amicizia su Facebook. Quell’amicizia che non c’è bisogno di chiedere, perché era stata già  concessa. Una volta, per sempre.


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