SE LA COOPERAZIONE FUNZIONA

by Editore | 21 Marzo 2012 7:42

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È una scelta politica importante, specie alla fine di un quindicennio in cui le risorse dedicate alla cooperazione sono andate sempre più assottigliandosi. Oggi i fondi che stanziamo per la cooperazione internazionale sono esclusivamente quelli che l’Ue ci obbliga a prevedere. Per dare un’idea, il totale delle rimesse che gli immigrati mandano dall’Italia nei loro Paesi d’origine equivale a più del doppio di quel che il nostro Paese mette a bilancio per gli aiuti a quelle nazioni, e siamo passati dal 6° al 12° posto nella classifica dei contributori alle agenzie di sviluppo delle Nazioni Unite: da quando è iniziata la crisi noi abbiamo ridotto gli stanziamenti per lo sviluppo più di quanto hanno fatto Grecia, Islanda, Irlanda e Portogallo.
Giusto, dirà  qualcuno: se non ci sono soldi, quei pochi che ci sono si tengono “noi”.
Ma siamo sicuri? Siamo sicuri che ci sia un noi e un loro? Se così fosse, perché dovremmo chiamarla cooperazione e non beneficenza? La beneficenza si fa quando si ha un margine di reddito innecessario, la cooperazione è una relazione biunivoca.
Siamo su un terreno impervio e dobbiamo cercare di non inciampare nei luoghi comuni. Ma vale la pena di provarci.
Innanzitutto chiediamoci: a cosa serve la cooperazione? A favorire lo sviluppo. Questo è un punto chiave. Un mondo inegualmente sviluppato è un mondo instabile, che fa fatica sempre e dappertutto: se un’auto ha una ruota di dimensioni adeguate e le altre tre sono quelle di una bicicletta, non va avanti, resterà  bloccata anche la ruota “buona”. È un ragionamento semplice, che risulta più evidente se lo applichiamo innanzitutto alla nostra comunità , e poi alla nostra nazione. I sistemi a due velocità  non funzionano mai bene: lo sanno le grandi megalopoli dove le disparità  tra ricchi e poveri sono più evidenti, lo sanno le nazioni, come la nostra, dove c’è un sud e un nord che sembrano completamente scollegati in termini economici e sociali. Quando si parla di equilibri, di ricerca dell’equità  sociale, è di questo che si sta parlando: della necessità  di lavorare a livello locale, nazionale e planetario per un mondo in cui ci siano pari opportunità , perché è solo così che si eliminano conflitti, ingiustizie e dolore. Non è una cosa che si fa “per qualcun altro”. È una cosa che si fa per tutti, ad iniziare da noi stessi.
Secondariamente: chi si occupa di cooperazione? Se ne occupano le tante Ong (Organizzazioni non governative, associazioni che si originano tra i cittadini e che non hanno un legame istituzionale con i governi dei loro Paesi) che in Italia e nel mondo hanno costruito competenze nel corso di decenni. Si pensi, per fare un esempio tra i tanti possibili, a quanto ha fatto la Comunità  di Sant’Egidio per la diplomazia della pace e la cultura dello sviluppo. Certo, quello delle Ong non è un mondo perfetto, ci sono stati e ci sono parecchi punti deboli. Ma non si può prescindere da questo tipo di organizzazioni, perché il legame cooperativo non può che avvenire tra le società  civili dei Paesi: non può funzionare se è solo un trasferimento di fondi da un governo all’altro. Ecco perché sono importanti le competenze e le relazioni tra le Ong dei Paesi «donatori» e quelle dei paesi “riceventi”, dette anche “controparti”. In realtà  tutti questi termini sono diventati un po’ stretti, andrebbero profondamente rivisitati. Intanto perché i Paesi donatori, attraverso le Ong, creano reddito, occupazione e crescita anche a casa propria. E poi perché siamo in una fase in cui si sta mettendo fortemente in discussione il modello economico classico e ci si avvicina sempre più ad una idea di “green economy” che consentirebbe di creare crescita, occupazione e sviluppo senza rapinare le risorse naturali, anzi proteggendole e rinnovandole. Ebbene, in parallelo, c’è una idea di “fair economy”, un modello economico giusto, nel quale si crea crescita, occupazione e sviluppo senza calpestare i diritti e il futuro delle persone. In un’ottica del genere i Ministeri per la Cooperazione diventano istituzioni chiave, perché si candidano ad essere i centri di governo dei nuovi assetti mondiali, figli di un’idea di globalizzazione mite, giusta, fruttuosa e moderna.
Infine: come si fa la cooperazione? Studiando le situazioni e collegandole tra loro. Quindi coinvolgendo anche gli altri Ministeri, e provando a creare un approccio ai problemi domestici e a quelli planetari che sia radicalmente interdisciplinare, coerente e coeso (in questo tutti i Paesi arricchitisi secondo un modello economico riduzionista e col respiro corto sono desolatamente sottosviluppati). Se qualcosa ci ha insegnato l’ultimo cinquantennio di progressiva globalizzazione è che non esiste nulla che fa bene o male solo a qualcuno. Ma soprattutto che non c’è modo di fare il proprio interesse se non facendo contestualmente anche quello altrui. 
Ora, c’è una straordinaria palestra in cui tutte queste idee possono trovare concretezza e applicazione, ed è il mondo della produzione alimentare. Produrre cibo non è un’opzione, è cosa che ogni nazione deve fare, non negli interessi di una categoria di cittadini, ma nell’interesse di tutti, indistintamente. Produrre cibo ha a che fare con l’ambiente, la salute, i diritti e l’economia. Questo ci ha insegnato, nel corso di un decennio, (incidentalmente il decennio in cui i fondi per la cooperazione venivano costantemente tagliati) la rete mondiale delle Comunità  del Cibo, Terra Madre, che ha continuato a fare, con allegria e competenza, cooperazione internazionale unendo le forze di tante comunità , di tante organizzazioni non governative, di tanti cervelli e di qualche istituzione, locale e nazionale. Investimenti, non donazioni: questo sono i soldi dedicati a progetti di sviluppo e se quei progetti riguardano l’agricoltura, allora riguardano anche tanti altri settori molto più vicini a noi di quanto siamo abituati a pensare.

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