Salari inchiodati e prezzi volanti
Aumenti del 10% per la luce, 1,8 per il gas. E gli imprenditori dichiarano spesso assai meno dei loro dipendentiNel paese dei furbetti, la croce del carico fiscale vien portata per intero soltanto dal lavoro dipendente. Che si trova però ora a fare i conti con una dinamica salariale congelata e con un aumento dei prezzi dei generi indispensabili che sfiora il 5%. Quella di ieri è stata una giornata in cui sono piovute pessime notizie, una dopo l’altra. Che nell’insieme descrivono perfettamente il fosco quadro della condizione della popolazione.
L’Istat ha aperto le danze chiarendo che le retribuzioni del lavoro dipendente sono assolutamente immobili per quanto riguarda i dipendenti pubblici, e pochissimo mobili nel settore privato (+1,8% a febbraio di quest’anno rispetto allo stesso mese del 2011). C’è da aggiungere che questi due dati riguardano soltanto il 67,4% dei dipendenti reali, ovvero quelli che vengono retribuiti secondo le regole stabilite da contratti nazionali. Gli altri – quelli che mancano per arrivare al 100% – sono probabilmente pagati assai meno, non essendo «coperti» dalla contrattazione di primo livello. La quale – comunque – nei primi due mesi di quest’anno non è esistita: nemmeno un accordo di categoria è stato rinnovato. E sì che in attesa ci sta il 32,6% del totale dei dipendenti, con i tempi medi di rinnovo che ormai toccano i 26 mesi (sui 36 di normale durata di un contratto!).
Ma questi lavoratori hanno una seconda sfortuna: i prezzi dei generi «acquistati con maggiore frequenza» sono cresciuti in un anno del 4,6%. Il «carrello della spesa» quotidiana, insomma, corre più velocemente dell’inflazione ufficiale (3,3%). Non è nemmeno sorprendente: quello a cui non si può rinunciare (tipo: alimentari freschi e carburante da riscaldamento) risente maggiormente sia della pressione della «domanda» che dei fenomeni critici congiunturali (il prezzo del petrolio). Mentre i generi «semi-superflui» possono restare nei negozi più a lungo e la minore domanda «deprime» anche il relativo cartellino. Lo spread «ufficiale» tra retribuzioni e prezzi è così salito, secondo l’Istat, all’1,9%. Significa che il potere d’acquisto del nostro stipendio «dimagrisce» del 2% annuo prima ancora di comprare qualcosa. Non succedeva dal 1995. Ma se si fa il paragone con il «carrello della spesa» questa perdita diventa quasi del 3%.
Non è finita, comunque. Proprio ieri l’autorità per l’energia ha autorizzato da aprile un aumento delle tariffe per l’energia elettrica e per il gas. Una bastonata pesantissima per la prima (5,8% dalla prossima settimana, un altro 4 da maggio; in totale quasi il 10%), e «soltanto» dell’1,8 per il gas.
Il povero lavoratore dipendente – non importa qui se «stabile» o «precario» – potrebbe a questo punto sentirsi già abbastanza depresso. A soccorrerne l’umore provvede però il Dipartimento delle finanze del ministero dell’economia, che ha pubblicato le statistiche relative alle dichiarazioni fiscali del 2010, anno di «piccola crescita» per il nostro paese. Un dipendente può qui scoprire in molti casi di avere un reddito più alto del suo datore di lavoro. Miracoli italiani, non replicabili altrove.
Se è vero che il 90% delle dichiarazioni dei redditi è inferiore ai 35.000 euro annui (e generano il 47% delle entrate fiscali dello Stato), è assolutamente certo che gli unici a non poter fornire dati falsi sono i dipendenti, «schedati» direttamente dall’azienda. Vero è che qualcuno – non tanti – riesce a spremere da se stesso energie anche per qualche «lavoretto» complementare, ma lo stesso si può dire (e magari anche di più) per le altre categorie censite.
Ma il 50% dei contribuenti dichiara di guadagnare meno di 15.000 euro. E anche qui sono davvero tanti quelli che proprio non possono farsi dare un’«aggiustata» al 730 (o al 770). Anche pensionati e precari, vogliamo dire, hanno pochi margini di evasione, praticamente nulli.
E quindi: se il reddito medio dei dipendenti è di quasi 20.000 euro, un «imprenditore in contabilità semplificata» ne dichiara in media molti meno: soltanto 16.830. Mentre uno in «contabilità ordinaria» sfoggia ben 27.300 euro e un «autonomo» può passare per un Paperone con i suoi 41.300 talleri.
Se queste cifre avessero soltanto la parvenza della verità – dipende dai dichiaranti e dagli scarsi controlli, non certo dagli statistici – se ne dovrebbe arguire che fare l’imprenditore davvero non conviene. Tutta quella fatica, quel rischio… e poi un pugno di mosche? Le cronache di questi giorni ci hanno consegnato casi di suicidio tra piccoli imprenditori e tra lavoratori; persone schiacciate allo stesso modo o quasi da una crisi enormemente più grande di loro. Ma nemmeno uno tra i padroni di grossa taglia e neppure tra i banchieri. Un motivo ci deve pur essere…
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