Ritorno a Baghdad venti anni dopo

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I vertici arabi di solito conciliano il sonno e servono ad evidenziare le ambiguità  di leader che tra di loro si chiamano «fratelli» e poi si pugnalano alle spalle. Questo che si apre oggi a Baghdad – venti anni dopo l’ultimo summit in Iraq – invece ha il pregio di catturare l’attenzione. Si svolge dopo un anno di «primavera araba» in Medio Oriente e Nord Africa e, più di tutto, avrà  sul tavolo la crisi siriana. Tuttavia anche questo incontro sarà  palcoscenico di enormi ipocrisie. A maggior ragione ora che la Lega araba è controllata dalle petro-monarchie del Golfo. Il ministro degli esteri iracheno Hoshyar Zebari ieri è stato molto netto comunicando l’agenda del vertice: si parlerà  della Siria – sospesa nei mesi scorsi dalla Lega araba e, quindi, esclusa dal vertice – e della repressione attuata dalle forze di sicurezza agli ordini del presidente Bashar Assad. Verrà  solo sfiorato il pugno di ferro che il re sunnita del Barhrain, Hamad bin Isa al Khalifa, protetto dall’Arabia saudita, usa contro la sua popolazione (in maggioranza sciita) che invoca riforme e diritti. «La situazione in Bahrain non è in agenda», ha detto Zebari. Poi, un po’ in imbarazzo, il ministro ha aggiunto che «ciò non significa che non ci sia preoccupazione per altri scenari, come il Bahrain o la Libia, la Tunisia, l’Egitto e lo Yemen». 
E’ fin troppo evidente che la mano saudita e qatariota si è fatta pesante negli ultimi giorni per imporre che sul tavolo ci sia una sola vera questione: la Siria di Bashar Assad. L’Iraq (a maggioranza sciita), secondo la stampa araba, aveva cercato di porre l’attenzione anche su ciò che accade a Manama. Ma la minaccia di Riyadh di inviare una delegazione di bassissimo profilo a Baghdad ha frenato il premier iracheno Nour al Maliki (accusato anch’egli di autoritarismo e discriminazioni a danno dei cittadini sunniti), spaventato dall’idea di un fallimento del vertice.
Al Maliki grazie al summit vuole mostrare il «volto nuovo» dell’Iraq dopo il ritiro delle forze di occupazione americane (che dietro però si sono lasciate un bel po’ di contractors e spie della Cia travestite da uomini d’affari). Baghdad è disseminata di aiuole ben curate, molte strade sono state asfaltate di recente, gli hotel sono stati ristrutturati e opere di abbellimento sono presenti un po’ ovunque. Lavori costati 500 milioni di dollari, ai quali se ne aggiungono altri 500 che Baghdad pagherà  al Kuwait come riparazioni della guerra del 1991 e 408 in risarcimenti per i lavoratori egiziani costretti a lasciare il paese venti anni fa. Debiti con Egitto e Kuwait che Maliki ha accettato di pagare in tempi stretti proprio per non turbare la riuscita del vertice. Sforzi che tuttavia non cancellano l’immagine di un Iraq nel caos e dove sono ripresi gli attentati che in queste ultime settimane hanno fatto 300 morti e feriti. 
E’ probabile che il vertice si concluda con una risoluzione interlocutoria sulla Siria. Il ministro Zebari ha annunciato che Lega araba non chiederà  al presidente Assad di dimettersi, «perché il cambiamento va guidato dal popolo siriano e non da poteri esterni». Da parte loro l’Arabia saudita e il Qatar proveranno ad assestare un colpo ben più pesante a Damasco domenica prossima in Turchia dove si terrà  la seconda conferenza dei cosiddetti «Amici della Siria». A Istanbul si prevedono il taglio collettivo delle relazioni diplomatiche con Damasco e l’ampliamento dell’appoggio «non-militare» all’opposizione siriana. Le armi però clandestinamente già  raggiungono i disertori.


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