Riflessioni in morte di una figlia incognita
La morte degli altri è qualcosa che accade non solo agli altri ma a noi stessi. Disperatamente soprattutto a noi stessi, sembra dire Joan Didion nei suoi due «memoirs» sulla perdita, Blue Nights, appena uscito per Il Saggiatore nella traduzione di Delfina Vezzoli (pp. 206, euro 15) e il precedente L’anno del pensiero magico, tradotto ancora per il Saggiatore da Vincenzo Mantovani (2006).
Scrittrice e sceneggiatrice, giornalista e saggista, Joan Didion (1934) forma con John Gregory Dunne una coppia creativa unita da quarant’anni quando, il 30 dicembre 2003, nel loro appartamento di New York, Dunne è colpito da arresto cardiaco e trova di colpo la morte, al ritorno dall’unità di terapia intensiva del Beth Israel North Hospital dove la figlia adottiva Quintana Roo è ricoverata da cinque giorni, dal giorno di Natale, in stato di incoscienza, con una diagnosi di influenza repentinamente quanto misteriosamente trasformata in polmonite e shock settico.
Didion si ritrova così ad affrontare prima la morte del marito e poi, da sola, quella della figlia, che sopravverrà neanche due anni dopo, il 26 agosto 2005, a seguito di un episodio di pancreatite acuta, senza aver mai recuperato, nel frattempo, la piena salute – e nel pieno del successo mondiale di L’anno del pensiero magico, la fedele ricostruzione di 366 giorni di lutto coniugale e di nuda e spietata e analisi di se stessa che Didion pubblica e che adatta anche in una pièce rappresentata a Broadway dall’amica di sempre Vanessa Redgrave.
Le «notti azzurre» che danno il titolo al nuovo libro – un’elegia piena d’ira selvaggia in memoria di Quintana in cui Didion, lei stessa ormai sul bordo della perdita dell’integrità fisica e mentale, sembra fare propri i celebri versi di Dylan Thomas «Do not go gentle into that good night/,Old age should burn and rave at close of day/;Rage, rage against the dying of the light», «infuria, infuria contro la morte della luce» – fanno riferimento a quella che i francesi chiamano l’heure bleue, i lunghissimi imbrunire d’inizio estate, nel Nord America così completamente azzurri, apparentemente destinati a non finire mai, insieme all’estate stessa. «Questo libro», scrive Didion «si intitola ‘Notti azzurre’ perché all’epoca in cui lo iniziai i miei pensieri erano sempre più concentrati sulla malattia, sulla fine della promessa, l’affievolirsi dei giorni, l’inevitabilità della dissolvenza, la morte del fulgore. Le notti azzurre sono l’opposto della morte del fulgore, ma ne sono anche l’annuncio».
La scomparsa del fulgore è anche, in un senso più ampio, il destino di Quintana Roo Dunne, bambina tormentata dal sentimento di abbandono, adolescente e poi giovane donna con le sue «profondità abissali e le sue levità , i suoi cambiamenti repentini», ma, come scrive Didion, «naturalmente non fu loro concesso di rimanere tali, profondità abissali, cambiamenti repentini. Naturalmente furono loro assegnati dei nomi, una ‘diagnosi’. I nomi continuavano a cambiare. La sindrome maniaco-depressiva divenne DOC dove DOC era l’acronimo di disturbo ossessivo-compulsivo e il disturbo ossessivo-compulsivo divenne qualcos’altro», alcolismo e poi disturbo borderline di personalità e così via, seminando profondamente in Didion il dubbio, ai confini sfrangiati della certezza, di essere stata – forse? – per sua figlia una cattiva madre, come se anche il dolore più intimo e proprio di Quintana non potesse trovare causa e radice se non in lei, Joan, come in uno specchio, riconducendo così da madre eternamente a sé, con i mezzi della scrittura, l’essenza della figlia.
Pure, qualcosa in Quintana resta irriducibile, a partire dal nome. Dare, infatti, alla «bella bambina» che avrebbero adottato negli anni Sessanta il nome Quintana Roo, lo stesso di un remoto distretto del Messico, era stato per i neogenitori un impulso gioioso, per i critici della coppia uno scherzo di cattivo gusto, ma soprattutto, per Joan Didion, il riconoscimento segreto di una distanza irraggiungibile: «Il posto sulla mappa chiamato Quintana Roo non era ancora uno Stato, ma un territorio. Il posto sulla mappa chiamato Quintana Roo per lo più era ancora frequentato da archeologi, erpetologi e banditi. Cancàºn, futura meta istituzionale delle vacanze pasquali, non esisteva ancora. Non c’erano voli low cost. Non c’era nessun Club Med. Il posto sulla mappa chiamato Quintana Roo era ancora terra incognita. Come lo era la neonata nel nido del St. John’s».
E una volta che la terra incognita è stata attraversata, anche i mezzi della scrittura, la cristallina abilità con le parole che Didion senza timori si riconosce e che solo la vecchiaia cerca di metterle in dubbio, l’intelligenza tagliente, la cultura letteraria, l’appartenenza alla storia di un certo cinema americano, le frequentazioni della Hollywood che conta, il name-dropping ossessivo, l’ex laureata in Letteratura inglese a Berkeley riconvertita in giornalista di «Vogue» che Didion non smette mai di essere, non sono più, si rivelano non essere più che legno di deriva depositato dal mare su una spiaggia lontana e accatastato, con fatica e senza speranza o fortuna, contro un dolore abbagliante, più abbagliante del fulgore perduto, dell’immagine di Quintana Roo nel giorno del suo matrimonio, soli cinque mesi prima dell’insorgere della malattia che la condurrà alla morte, l’immagine che ricorre ossessivamente dal primo libro al secondo e che segna l’inizio di Blue Nights: “Il pavone bianco faceva la ruota. L’organo suonava. Lei intrecciò bianchi gelsomini del Madagascar nella folta treccia che le scendeva sulla schiena. Si calò un velo di tulle sulla testa e i gelsomini si allentarono e caddero. Il fiore di frangipani tatuato appena sopra la sua spalla traspariva attraverso il tulle(…) Le bambine con ghirlande e abiti pallidi corsero giù per la navata e camminarono dietro di lei fino all’altare maggiore. Dopo che tutte le parole furono pronunciate, le bambine la seguirono fuori dal portone della cattedrale e dietro l’angolo, oltre i pavoni (i due pavoni iridescenti verdeazzurro e l’unico pavone bianco) verso la canonica della chiesa. C’erano tramezzini al cetriolo e crescione, una torta color pesca di Payard, champagne rosé. Scelte sue, tutte. Scelte sentimentali, cose che ricordava. Le ricordavo anch’io», Didion non smetterà mai di ricordare.
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