Quella vita da Black bloc

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Michael, 30 anni, sguardo limpido, una vita da hinterland e da raid in nero, in giro per il mondo. Di quelli che chiamano black bloc: «Ma in Italia un black bloc organizzato, alla tedesca o all’americana, non c’è. Mi fa ridere chi pensa a reti internazionali e scambi in internet. Al massimo c’è qualche amicizia nata nei cortei». Frequentati sempre da cane sciolto, senza aderire a gruppi o sigle, nell’allergia per i servizi d’ordine organizzati: «Quelli, dopo le cariche, spariscono. Noi siamo fluidità : recuperi le posizioni e provi a tenerle, appari e scompari. Sono cose che fai in gruppi di 3 o 4. È per questo che l’organizzazione può essere orizzontale. Ed è per questo che gente come le tute bianche, legata al principio del capo, ci odia». Serve il sostegno della piazza: «Non sempre l’ho sentito, ma in val Susa sì. Martedì mentre la polizia bersagliava la gente che si ritirava dal presidio un gruppo di donne si è seduto sull’asfalto: “Se dovete punire il movimento, punite noi”. Resistere significava semplicemente sedersi con loro».
Inizia con un Michael quindicenne, affascinato da Sepulveda e dalle lotte in Patagonia, che si avvicina ai collettivi studenteschi: «Per fortuna erano collettivi di provincia. A Milano dominavano i più grandi, noi eravamo pischelli della stessa età , nel periodo dei treni e delle grandi manifestazioni: Praga, Davos, Genova, la notte dei tempi. La prima pietra la tirai a Praga, a 15 anni. Stavo con i “Pink”, pacifisti e clown, facevamo teatro per i disabili, la polizia caricò noi e loro. Lanciai per istinto». Michael scopre la sigla black bloc, attratto da quel sit-in di ragazzi in nero che a Seattle rispondono alla carica di polizia tirando bottiglie di plastica piene d’acqua. Quando la polvere delle Torri Gemelle travolge il movimento no global, lui ha già  iniziato a vivere nelle case occupate, «dove non c’è logica di denaro né di carisma. Magari si scazza, ma come in famiglia». Dice di non conoscere l’odio: «Solo la grande amarezza di una generazione privata del futuro: sai che nessuno ti darà  mai un mutuo, non puoi fare figli, non puoi contare su un lavoro per più di sei mesi. E sei espulso da tutto: anche nei centri sociali, ormai sei in discoteca. Se il modo di partecipare è quello del Leoncavallo, un ragazzo che entra nel movimento pensa che tanto vale la disco. Per le “pantere grigie” sei solo un cliente». E la violenza allora? «Ha senso se è diretta sui simboli. Se uno non è cosciente di quel che fa, lo fermi. Gli incazzati puri, senza obiettivi, quelli che bruciano le Punto lavoriamo per fermarli. Non parlo di infiltrati, parlo di gente che non si sogna nemmeno di avere un’idea – anarchica o meno – e vive di rabbia. Quando partiranno questi – e sarà  per fame – dilagherà  la distruzione. Noi preveniamo la deriva, dirottando l’azione sui simboli: non è la furia delle banlieues, ma quella di Toronto contro gli sprechi olimpici». Colpire simboli e creare intoppi: «Oggi uno con l’etica di Bresci non spara, oggi Bresci è uno che inceppa i siti delle banche. È azione diretta, efficace: grazie all’Animal Liberation Front in Inghilterra non c’è più un centro commerciale che venda pellicce. Chiunque può fare azioni e rivendicarle, purché si riconosca nel nostro orizzonte: difesa dei deboli, rifiuto dell’autoritarismo, conoscenza dell’individuo e della sua grandezza, misurata nelle capacità . Fallite le ideologie, resta solo la responsabilità  personale: quello che puoi fare con le tue mani». E adesso, Michael? Sorride, si guarda le mani: «Invecchio, sto diventando sedentario. La mia utopia sta in quello che provo a realizzare da me: un lavoro e un piccolo territorio liberato dove fare comunità  e trovare equilibrio con la mia ragazza». Vivere in pace, Michael? Vivere in pace.


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