Quel flusso interrotto nella fabbrica verde

by Editore | 20 Marzo 2012 7:04

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La storia dello sciopero a Nardò dei lavoratori migranti è nota. Il finale probabilmente meno. La storia è raccontata bene nel volume collettivo Sulla pelle viva. Nardò: la lotta autorganizzata dei braccianti immigrati (DeriveApprodi, pp. 168, euro 12) che non è però semplicemente la ricostruzione appassionata di quello sciopero, ma anche il tentativo di andare oltre l’episodio, cercando qualche risposta in un tempo più ampio che comprende sia gli antefatti dello sciopero sia i suoi effetti. Dal 30 luglio 2011 un gruppo di braccianti agricoli di varie nazionalità  si rifiuta di continuare la raccolta dei pomodori per il salario di circa 3,50 euro per un cassone di 300 kg. È uno scontro sulla retribuzione e sul contenuto di un contratto di lavoro che si rivela come un’imposizione alla quale si deve scegliere se resistere o piegarsi. Come altre volte è successo, molti lavoratori migranti decidono di non piegarsi. La lotta si organizza avendo come base la Masseria Boncuri dove, grazie all’associazione «Finis Terrae» e alle Brigate di solidarietà  attiva, sono ospitate diverse centinaia di migranti. L’evento diviene notizia anche sulle pagine dei giornali a diffusione nazionale e in tv. Alla base del successo mediatico c’è la diffusa quanto taciuta consapevolezza dello sfruttamento dei migranti. Tutti infatti sanno che, ben prima che la clandestinità  diventasse reato, la legge Bossi-Fini già  provvedeva a far sì che la disoccupazione dei migranti fosse un reato che, anche senza essere dichiarato tale, prevede comunque l’espulsione. 
Quell’oscuro scrutare
Le tensioni che questa situazione produce sono note e documentate. Proprio per questo, al fondo dell’interesse mediatico per l’evento di Nardò vi è la preoccupazione di chi teme che la nuova emergenza sia l’inizio della fine della sopportazione per una condizione palesemente insopportabile. A questo timoroso scrutare le reazioni dei migranti si accompagna però una sorta di diverso stupore che si intravede sullo sfondo anche di molta solidarietà . È lo stupore che si trova nello sguardo un po’ smarrito di chi ogni volta si sorprende che i migranti, invece che consegnarsi al loro destino di vittime, rivendicando generici diritti di cittadinanza, sappiano organizzarsi autonomamente e persino scioperare. È su questo crinale che l’effetto razzista che investe i migranti in Italia e in Europa assume una forma che non ha tanto a che fare con le differenze culturali o «etniche», quanto con il riconoscimento della legittimità  di lottare per modificare la propria specifica condizione. 
Da questo punto di vista il problema posto dallo sciopero dei lavoratori migranti va appunto ben oltre la sua realizzazione. Se c’è qualcosa di sconcertante negli scioperi dei migranti è il loro carattere di novità , cioè di assoluta modernità . Lo sciopero dei migranti, infatti, non è mai rivolto solamente contro i padroni di turno. A Nardò la mediazione coatta dello sfruttamento da parte dei caporali non è un residuo di un passato da modernizzare, ma il modo in cui una forza lavoro transnazionale, spesso già  espulsa dalle fabbriche del nord, viene incatenata alla ricerca del profitto di industrie agro-alimentari il più delle volte con solidi legami multinazionali. Il caporale non è solo un parassita del salario locale, ma anche il funzionario informale di una lunghissima catena dello sfruttamento che fa scomparire il padrone anche oltre Detroit. La presenza dei caporali fa apparire il contratto di lavoro ancora più povero e più brutalmente sottoposto a taglieggiamenti che registrano posizioni di potere. Anche in agricoltura, tuttavia, il lavoro migrante anticipa nelle sue forme più brutali la generale e globale precarizzazione del lavoro. È di fronte a questa realtà  che il sindacato mostra un ritardo che non è solo culturale o organizzativo, ma di comprensione dei processi contemporanei di organizzazione del lavoro. Per questo gli scioperi del lavoro migrante sono anche scioperi contro il sindacato anche quando lo attraversano o quando alcuni sindacalisti partecipano o danno supporto alle lotte. Si tratta di una lotta sorda e silenziosa contro il modo in cui i sindacati ancora rappresentano un lavoro che nel frattempo si è profondamente modificato. Ancora oggi, infatti, i sindacati sembrano non cogliere la novità  rappresentata della presenza di quei lavoratori migranti che pure tesserano in numero sempre maggiore. Non si tratta evidentemente di una nuova posizione da difendere aggiungendola alle altre già  presenti, ma di una cesura trasversale che, come scrivono gli attivisti delle Brigate di solidarietà , fa apparire le categorie usuali salutarmente «sporcate di materialità ». 
A questa lotta che si svolge talvolta dentro o contro la forma attuale del sindacato si accompagna quella contro la pubblica amministrazione. Come è accaduto anche a Nardò, le procedure che dovrebbero mettere ognuno degli attori coinvolti nella condizione di agire secondo il proprio ruolo e le proprie competenze, semplicemente non vengono attivate se non quando diviene troppo pericoloso non intervenire. E non si tratta di cattiva gestione delle situazioni o addirittura delle emergenze. La legge Bossi/Fini con la sua gestione burocratica del mercato del lavoro migrante e con il suo razzismo istituzionale riproduce costantemente la distanza tra le istituzioni e i migranti, spingendoli costantemente in basso nella gerarchia di coloro che si possono aspettare una risposta amministrativa ai loro problemi. 
Questa situazione di fatto può far apparire le istituzioni amministrative come l’unica controparte dei migranti anche se non è così. Il campo di accoglienza nella Masseria Boncuri ha, ad esempio, rappresentato il tentativo di una contingente istituzionalizzazione di «parte»: non solo una supplenza di tutto ciò che mancava, ma anche la sperimentazione di un rapporto sottratto alla segregazione e alle gerarchie del lavoro migrante in agricoltura, con l’idea dichiarata che le lotte dei migranti sono collegate a quelle degli operai in cassa integrazione e di tutti gli altri precari.
Finale da scrivere
Se si considera il nesso tra lotta economica, spinta alla trasformazione organizzativa e scontro con la pubblica amministrazione si coglie la specifica politicità  delle lotte dei migranti. Allo stesso tempo si comprende anche perché il finale dello sciopero del lavoro migrante va probabilmente oltre la sua contingenza. Lo sciopero di Nardò ha fatto sì che dal 13 agosto 2011 lo Stato italiano consideri il caporalato come reato penale. Si può però dubitare di questo lieto fine, ovvero del fatto che questa legge trovi un’immediata e rigorosa applicazione nella «fabbrica verde» del meridione d’Italia. 
Nei giorni e nelle settimane seguenti i lavoratori migranti di Nardò si sono dispersi alla ricerca di un altro salario, trovando fin da subito altri caporali e altre istituzioni. Eppure l’effetto di politicizzazione che la loro azione ha prodotto tra gli altri migranti in Italia non è un risultato secondario. Più ancora della diffusione della notizia ciò che è stato fin da subito importante è stato l’effetto che lo sciopero ha prodotto nei circuiti dei migranti: non la scoperta di una potenzialità , ma la conferma di una possibilità  immediata. In questo senso il finale dello sciopero di Nardò non è detto che sia stato scritto nel Salento. Più probabilmente è ancora da scrivere.

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