by Editore | 13 Marzo 2012 7:24
Joan Didion ha 78 anni. L’età di Sophia Loren, dice di se stessa, eppure “nessuno si sognerebbe di suggerire alla Loren che sta attuando un adattamento inadeguato alla vecchiaia”. A Didion invece lo dicono, i molti medici che continuamente visita: ha un adattamento inadeguato alla vecchiaia, signora. A New York i medici parlano così: certo, non tutti. Lo fanno i costosi medici dell’inner circle di cui Didion, considerata la più grande giornalista americana, fa parte. Un linguaggio elusivo e indiretto che a noi europei, o forse solo a noi utenti della sanità pubblica, sembra un beneducato esercizio di stile compreso nell’onorario. Un mondo dove chi si suicida entra nel novero dei casi di “palese inadeguatezza all’evento scatenante”, giacché è chiaro che se ti ammazzi perché hai perso due treni di seguito non c’è proporzione fra l’inconveniente e le conseguenze che ne fai discendere, ci deve essere alla base di quella “palese inadeguatezza” un “legame emotivo reciso”, probabilmente stavi malissimo da prima, diciamo pure senz’altro.
Dunque è questo il primo ostacolo che il lettore deve superare se vuole entrare – e deve farlo: è necessario, è istruttivo, è salvifico, è definitivo – nella sala dell’anatomopatologo degli umani dolori che questa donna probabilmente tanto odiosa nella vita pubblica quanto disperatamente fragile in quella privata ha allestito per noi. Deve vincere, chi legge, il vivo senso di ostilità che si prova ad essere introdotti in un mondo in cui chi soffre molto e moltissimo, chi muore e chi resta solo delle altrui morti, chi perde una figlia, chi invecchia senza trovare più un senso ai suoi giorni lo fa in un mondo di piante di agapanto africane e gigli del Nilo in giardino, domestiche ispaniche clandestine comandate a non rispondere nella loro lingua, chintz inglesi e cani bovari delle Fiandre, ville a Malibu e villaggi costruiti a Saint-Tropez all’unico scopo di far divertire i bambini. Bambini che diventano castellani di borghi francesi come passatempo per le vacanze, bambini che tuttavia muoiono, un giorno qualsiasi, per una ragione insensata e del tutto indipendente dal tipo di vita che loro malgrado i genitori hanno allestito per loro.
Bisogna vincere insomma l’istintiva tentazione di pensare che chi nutre una seienne di caviale servito in suite (ma solo se il viaggio è rimborsato a piè di lista), chi chiama Patti Smith a cantare ai funerali, chi non è capace di togliere un dente che dondola a suo figlio senza pensare di portarlo al pronto soccorso della clinica coi cactus, chi vive studiando nei figli adolescenti la “diffusione d’identità ” e poi ci scrive sopra romanzi di successo senza mai starli a sentire quando chiamano – quando piangono, quando vomitano parole, quando sognano mostri – perché “scusa, fai piano, non vedi che mamma sta lavorando”. Ecco, bisogna fare l’esercizio di varcare la soglia ed ascoltare oltre, nonostante e alla fine grazie a questa esibita esagerazione il sibilo del bisturi con cui l’autrice seziona i meno nominabili fra i sentimenti, i più ambigui tra i meriti, le più innocenti delle colpe. Principalmente i suoi, soprattutto i suoi: con una capacità di amputarsi da viva e senza anestesia che fa dimenticare infine i gigli del Nilo e i tailleur di Chanel taglia 38, che ci fa sentire freddo e caldo insieme, che ci fa essere lì. In quel luogo dove nessuno ancora ci aveva portato prima, e pazienza se per arrivarci è servito l’elicottero, poi la Limousine.
Chi ha amato Joan Didion nell’Anno del pensiero magico, e noi l’abbiamo amata moltissimo, si trova oggi al cospetto di una parete ancora più impervia: una prova suprema. Lì Didion diceva della improvvisa morte del marito, John Dunne, lui pure scrittore di fama. Qui, in Blue Nights, racconta della perdita avvenuta appena un anno dopo della loro unica figlia trentenne. Una malattia tragica e lunga, improvvisa, un calvario di operazioni e di terapie intensive, un diario dell’incredulità e dell’impotenza, della rabbia e del rimorso. Quintana Roo, a cui il libro è naturalmente dedicato, era la loro figlia adottiva. Una bambina “presa come una bambola”, neonata all’ospedale, e come una bambola cresciuta. Quintana, nella sua infanzia e adolescenza doratissima, è stata una bambina profondamente infelice. Su questo ragiona la madre, ricercando postumi i suoi biglietti le sue poesie i suoi disegni: del suo sentirsi fragile, del suo avere paura, del suo essere rabbiosa, della loro incapacità di adulti di vedere e sentire. Le pagine sull’adozione sono le più belle e le più dure, chiunque abbia fatto questa esperienza dovrebbe leggerle.
“Sei stata scelta”, le dicono i genitori adottivi. “Sono stata trovata”, dice Quintana quando la madre biologica, trent’anni dopo, si fa viva. Fra essere scelti e essere trovati c’è sempre una solitudine di mezzo, un abbandono. Che poi è alla fine lo stesso, in qualche angolo, di chi non è stato scelto né trovato ma si è semplicemente dovuto arrangiare nella vita fino magari a farla brillare d’oro e d’argento, dimenticando antichi baratri. Di chi si è fatto duro e durissimo per blindare la materia rovente giù in fondo, un’eco di gorgoglii vulcanici sempre più debole. E però un giorno erutta, il vulcano. Magari hai quasi 80 anni e tredici apparecchi telefonici nell’attico in cui vivi da sola. Non per questo è meno toccante sentirti dire parole affilate come sciabole, dolenti come poemi greci, tenere come sillabe di bimbo. Al contrario, lo è di più.
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