QUEL DIALOGO CON LE COMUNITà€

by Editore | 15 Marzo 2012 7:22

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«Non nel mio cortile» purtroppo non è un modo di ragionare, e nemmeno di dialogare. Nimby, «Not In My Backyard», non fa onore a chi ha cura della sua terra e, in contrapposizione, fornisce assist troppo facili a chi ha altri interessi. Tuttavia, anche il diffuso pensiero politicamente corretto per cui le istanze generali sarebbero sempre più importanti di quelle locali non è da meno. Ridursi a sbandierare un acronimo o fare i politicamente corretti non serve a nulla quando sulla bilancia si mettono l’interesse di una Nazione o di una Regione e quello particolare delle comunità  locali: sono modi di pensare che tolgono la possibilità  di approfondire, valutare, dialogare per mediare. 
È proprio ciò in cui manca la politica, la quale sarebbe fondamentale nel favorire il dialogo, praticare l’ascolto, coinvolgere le comunità  al di là  degli interessi particolari. Invece nella classe politica italiana è costume diffuso cedere all’errore riduzionista, o egosita, e diventare schizofrenici quando ci si sposta dal globale al locale, dalla piazza al cortile: ci si dichiara in favore dell’interesse generale salvo poi farsi contagiare dalla sindrome di Nimby quando si tocca quello del proprio collegio elettorale. Dall’alto quindi non arrivano buoni esempi e si finisce inevitabilmente tra i Nimby e i No-Nimby, senza vie di mezzo. 
Le cose sono sempre un po’ diverse e complesse invece, proprio come sono complesse le realtà  locali. La buona pratica democratica dovrebbe quindi iniziare sempre dai territori, per abbracciare questa complessità . Partire dal locale significa interpellare per primo chi il territorio lo conosce, lo abita e lo ama. Comunità  locali che dal canto loro dovrebbero essere pronte a rispondere, in grado di dare un contributo costruttivo per valutare dove dovrà  pendere l’ago della bilancia, o se è addirittura il caso di cambiare bilancia: introdurre modifiche importanti ai progetti, capire se è più ciò che si perderà  in termini ambientali e sociali (che dovrebbero essere considerati anche valori economici) di quanto non si possa guadagnare sotto altri punti di vista. 
Partire dal locale non dovrebbe significare essere localisiti, ma avere la volontà  di trovare una mediazione. E qui, nella volontà  di mediare, sta la difficoltà  maggiore: nella gran parte dei casi le comunità  locali sono puntualmente estromesse, oppure così pregiudicate nella loro integrità  da non essere più in grado di rispondere, se interpellate. Lavorare per costruire comunità  locali forti, economie di territorio fiorenti e sostenibili, identità  aperte e dotate di memoria, troppo spesso è scambiato per una forma di chiusura nell’alveo di modelli di sviluppo appartenenti al passato o dentro confini geografici inventati. Invece si tratta di ricostruire e praticare democrazia partecipata, porre le basi per una mediazione intelligente e civile quando alla comunità  locale viene chiesto di fare un passo indietro nella propria sovranità  in favore di quella collettiva. Non è localismo becero (che pur esiste) e non dev’essere la sindrome di Nimby: si tratta della (ri)costruzione di un tessuto democratico da cui nessuna Nazione può prescindere; di darsi la possibilità  di ponderare meglio scelte che intaccheranno per sempre i nostri territori, oggi mediamente a un livello di depauperamento inaccettabile. Depauperamento non soltanto ambientale e paesaggistico, di conseguenza anche umano. E dove mancano le persone, dove mancano le comunità , è più facile proseguire con le devastazioni. È un sintomo non tanto della mancanza dei Nimby, ma del fallimento della politica.

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