Quei movimenti a rischio volatilità  se non plasmano una forma politica

by Editore | 31 Marzo 2012 12:18

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Primi sono stati gli spagnoli, poi il contagio si è diffuso in Tunisia, Egitto, mentre alcuni, con non poca accorta nonchalance continuano a vederne altre manifestazioni in Libia e Siria. In seguito, il virus della rivolta si manifesto a New York per poi spostarsi in altre città  statunistensi. È solo una delle tante successioni che si possono esibire sui movimenti sociali che si sono manifestati dal 2008, anno deciso per indicare l’esplodere della crisi economica globale. 
Ce ne possono essere altre, molto più convincenti, che cercano di coglierne genesi, sviluppo e mutazione, in una prospettiva che coglie gli elementi di continuità , ma anche di discontinuità . Una mappa dei movimenti sociali non può ovviamente dimenticare cosa è accaduto nelle università  italiane, inglesi e francesi tra il 2007 e gli anni successivi, allorquando nelle assemblee, nei documenti e nei cortei l’accento era posto non solo sulla critica alle varie riforme dell’università  presentate dai governi, ma su come la condizione studentesca fosse da contestualizzare nella diffusione della precarietà . Le università , e la formazione in generale, erano solo fabbriche di uomini e donne precarie. 
In ogni caso, sia che si privilegi una mappa e una successione o altre interpretazioni le esperienze delle cosiddette primavere arabe, degli indignados spagnoli e di Occupy questi movimenti hanno posto la necessità  di sciogliere il nodo:come fronteggiare una crisi che ha fenomenologie e caratteristiche anomale rispetto al passato, a partire dalla centralità  del tema del debito e che, anche se definita globale, vede diverse realtà  nazionali e continentali altrettanto significative dei punti comuni che si possono rintracciare in Italia e negli Stati Uniti, in Spagna come in Grecia.
Fanno dunque bene Gigi Roggiero e Anna Curcio, nell’introdurre il volume collettivo Occupy (ombre corte, pp. 158, euro 15), a privilegiare la crisi e la precarietà  come una cornice concettuale in cui collocare l’esperienza di Zuccotti Park, ma anche degli indignados di Puerta del Sol o i giovani tunisini e egiziani che hanno cacciato i rais del loro paese. Sia ben chiaro, sono questi movimenti vincolati, ovviamente, alle loro specificità , ma sono accumunati dalla capacità  di diffondersi rapidamente, riuscendo a costruire un enorme consenso; sono altresì «intensi», mostrando al contempo non poche difficoltà  a garantire continuità  nell’azione politica. Sull’effetto «sciame» dei movimenti sociali tanto si è scritto e discusso. Lo sciame, è noto, si aggrega per un breve intervello di tempo; nel suo movimento prima impreciso, si compatta e chi lo osserva vede un coordinamento e un’organizzazione impareggiabile in efficacia. Ma una volta raggiunto l’obiettivo si disperde, così rapidamente come si era formato. Le analogie tra i comportamenti collettivi e i comportamenti di altre specie animali funzionano solo per rappresentare un fenomeno, certo non per comprenderne le dinamiche interne, genesi e sviluppo. Lo sciame aiuta cioè a fotografare quello che è accaduto, non a spiegarne i motivi. Così emerge la domanda: perché movimenti sociali così pervasivi, così capaci a diffondersi non riescono a durare nel tempo?
Un’altra spiegazione viene da una consolidata saggistica che lega i movimenti sociali a congetture, manifestazioni reattive a qualcosa originato da scelte e decisioni prese dal potere costituito. Secondo questa interpretazione i movimenti sono carsici, perché esprimono un indifferenziato fluire del legame sociale e le conseguenti variazioni nei rapporti di forza nella società . Anche questa spiegazione coglie l’emergere del movimento e il suo inabissarsi nella terra, ma nulla più. Dunque insufficiente come la prima nello spiegare la centralità  dei movimenti sociali in una situazione di crisi della democrazia rappresentativa e delle forme politiche «classiche». 
La parabola di «Occupy Wall Street», degli indignati spagnoli e delle primavere arabe richiede dunque uno sforzo analitico ulteriore rispetto a queste griglie interpretative finora dominanti. Se lo sciame è solo fotografia di ciò che accade, la lettura dei movimenti come variabile dipendente dal sistema politica è sempre svolta quando questi si sono eclissati, lo sforzo analitico necessario deve obbligatoriamente partire dalle condizioni sociali, politiche in cui tali movimenti sociali agiscono. Ricordare che la crisi abbia un carattere dirompente, tellurico che sta i cambiando l’Europa, ma anche gli Stati Uniti, l’Africa del Nord, l’Asia è cosa ovvia. Più interessante è l’ipotesi interpretativa presente in tutti gli interventi e brillantemente riassunta nell’introduzione: sono movimenti che presentano una composizione sociale caratterizzata da una media scolarizzazione e da una presenza «precaria» sul mercato del lavoro. Uomini e donne cioè «figli» della controrivoluzione neoliberale, che hanno ricevuto le stigmate di un regime di accumulazione dove la precarietà  si associa al venir meno del welfare state in Europa, da una gestione spregiudicata della personale «finanza creativa» (dati i bassi salari) e un indebitamento dovuto all’acquisto dei servizi sociali. Dunque una composizione sociale che dà  vita a volatili movimenti sociali, insofferenti al meccanismo della delega e interessati a sperimentare forme di decisione politica ostili a quel monopolio che la modernità  ha assegnato allo stato. 
I saggi non rimuovono nessuna delle asperità  che tali elementi consegnano alla riflessione teorica. L’accento è posto sul fatto che tali movimenti debbano vedersela con un capitalismo dove l’intreccio tra finanza, precarietà  è sfociato in politiche del rigore che scandiscono la continuità  tra il passato prossimo del neoliberismo e il presente. Ma quello che emerge è anche una continuità  dei movimenti sociali che, oltre ad essere una specifica forma della politica, sono vissuti come una «forma di vita» che non viene cancellata una volta che le mobilitazioni scemano e tutto sembra tornare alla normalità . È questo un aspetto che spiega il perché il neoliberismo ha avuto sempre come contraltare movimenti «mimetici», che affermano sia il rifiuto della precarietà  che della guerra; o, elemento non da sottovalutare, oppongono una visione solidaristica alle politiche di valorizzazione capitalistica del territorio che hanno tenuto banco per oltre un trentennio.
La volatilità  dei movimenti sociali non sarebbe altro che la dimensione pubblica di una forma di vita che innerva oramai le società , tanto al nord che nel sud del pianeta. Il problema che si impone non è dunque l’assenza di continuità , bensì la difficoltà  di produrre forme organizzative che rendano i movimenti modelli politici stabilmente alternativi ai partiti e, in misura diversa, ai sindacati. Al di là  di certe stucchevoli procedure decisionali – l’unanimità  come vincolo, una visione dei rappresentanti come un megafono delle assemblee – le esperienze degli indignati spagnoli costituiscono modelli che non sciolgono il nodo, ma aiutano a indicare un terreno di sperimentazione, proprio perché è evidente che fare movimento diventa una forma di vita. 
Nessuna nostalgia, però, per temporaneee comunità  inoperose, ma la consapevolezza che tra forma di vita e politica c’è un legame che non è dato in natura. Semmai va costruito.

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