by Editore | 11 Marzo 2012 16:12
Il responso è arrivato ieri sera: Franco Lamolinara è stato assassinato con quattro colpi tirati da un fucile a canna lunga, a distanza ravvicinata, ma non a bruciapelo. Non è stata chiarita la sequenza, quindi non si sa qual è stato il colpo fatale, ma uno dei proiettili è stato sparato al capo, tre al corpo. Tre pallottole sono state trapassanti e sono andate perdute, ma la quarta è stata recuperata intera e sarà esaminata per capire se si riesce a risalire al tipo di arma che l’ha esplosa. Sembra proprio, quindi, che l’omicidio, a sangue freddo, sia stato commesso dai suoi rapitori. Presumibilmente un responso simile si avrà per il suo compagno di prigionia, il britannico Chris McManus.
L’autopsia sul corpo dell’ingegnere italiano è stata condotta a Roma dal professor Paolo Arbarello, dell’Istituto di medicina legale della Sapienza. Il feretro di Lamolinara è arrivato ieri poco prima delle 14 all’aeroporto di Ciampino, accolto dal figlio Mattia e dalla sorella Angela, dal ministro della Difesa, Giampaolo Di Paola, e dall’ambasciatore britannico a Roma, Christopher Prentice. Oggi il premier Mario Monti si recherà a Gattinara, dove abitava Lamolinara con la famiglia.
Citata dalla Reuters la moglie di una delle guardie che controllavano la palazzina dove vivevano rapiti e rapitori, Hauwa, sostiene di aver visto vivi l’italiano e il britannico nel salotto dell’appartamento e poi di averli visti sbattere nel bagno dove sarebbero stati giustiziati.
Dal canto suo la France Presse racconta che sono stati arrestati otto miliziani coinvolti nel sequestro e nella battaglia, uno dei quali ha confessato: «Li abbiamo ammazzati noi. Non pensavamo di sopravvivere all’assalto».
Un primo mistero sulla fine dei due ostaggi sembra quindi svelato, ma altri ne saltano fuori. Nonostante tutte le smentite, appare ormai fuori di dubbio che i rapitori hanno chiesto un riscatto, esattamente 150 milioni di naira, la moneta nigeriana, pari a 720 mila euro. «Altrimenti perché li avrebbero tenuti prigionieri tutto questo tempo?» domanda retoricamente una fonte diplomatica.
Finora tutti hanno negato che fossero in corso negoziati. Ma ieri, per la prima volta, si è parlato di una tranche che sarebbe stata pagata.
Anzi, gli investigatori sarebbero risaliti all’identità del gruppo dei sequestratori e al covo dove erano detenuti i rapiti, proprio attraverso i canali avviati per monitorare quel versamento. La voce, raccolta da un’agenzia di stampa, sembra però inconsistente.
Boko Haram, il gruppo terrorista islamico che quasi ogni giorno in Nigeria rivendica un omicidio, un massacro o una strage, ha ribadito nuovamente la sua estraneità al sequestro e a maggior ragione a un’eventuale richiesta di denaro: «Non è nostra abitudine chiedere riscatti», ha specificato in lingua hausa Abu Qaqa, portavoce di Boko Haram, contattato a nome del Corriere da un giornalista nigeriano che segue i fatti di terrorismo.
All’ennesima smentita è seguita un’altra teoria. A rapire i due europei sarebbe stato un gruppo che si è staccato dai terroristi radicali, rompendo con la casa madre islamica: «Non si può scoprire all’ultimo minuto che c’è una matrice politico-ideologica-religiosa — sostiene Ahmad Salkida, un reporter che ha intervistato più volte i leader dei terroristi —. Questi gruppi ci tengono a far vedere che hanno un’agenda. Cercano visibilità , si mostrano, ancorché con il volto coperto che li rende irriconoscibili su YouTube, dove minacciano o blandiscono. C’è sempre qualcuno che si proclama leader. Contattano i giornalisti per essere intervistati. Non c’è nessuna indicazione che qualcuno sia fuoriuscito da Boko Haram e abbia fondato un nuovo gruppo radicale».
Ahmad propende per la tesi secondo cui i rapitori sono dei criminali comuni: «Nelle poche immagini che hanno diffuso non si vede un Corano né qualcosa di islamico, cosa piuttosto strana se il gruppo avesse voluto diffondere un messaggio musulmano», commenta Ahmad.
Il giorno del raid a Sokoto l’industria dei sequestri in Nigeria è entrata in azione nel sud del Paese. Un gruppo di banditi ha cercato di rapire un altro ingegnere italiano, Renzo Galvagni, che lavora in una compagnia di costruzione. La sua auto è stata bloccata ma la fortuna ha voluto che in quel momento passasse una pattuglia della polizia. Così la preda è riuscita a scappare.
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