Quanti errori, mr Marchionne

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C’erano una volta in Europa due grandi aziende automobilistiche che facevano la parte del leone soprattutto sul mercato delle vetture più popolari. La prima, tedesca, a prevalente controllo pubblico. La seconda, italiana, privata – anzi, privatissima perché sotto la guida azionaria di una singola famiglia – ma che non disdegnava aiuti pubblici sotto ogni forma, diretta o indiretta. La crisi economica più recente, esplosa nel 2008, ha messo entrambe in serie difficoltà  per la robusta caduta della domanda di automobili.

I dirigenti dell’una e dell’altra sono stati costretti a darsi parecchio da fare per evitare grossi guai e però seguendo percorsi assai diversi. I tedeschi hanno scelto di accrescere i loro investimenti, puntando tutto sul versante dell’offerta sul mercato di modelli nuovi o comunque rinnovati. Gli italiani hanno preso la strada opposta, tagliando sia gli investimenti sia l’offerta. E quando l’incubo di un fallimento pareva fin troppo vicino hanno fatto la brillante trovata di uscire dai confini dell’Europa per andare negli Usa a salvare – con il sostanzioso contributo del governo di Washington – la Chrysler e insieme a essa quel che restava del capitale della famiglia Agnelli.

La mossa americana si è rivelata anche rapidamente vincente ma ha comportato il danno collaterale di un semiabbandono dei mercati europei e di quello italiano in particolare. Scelta giustificata col fatto che, mentre negli Usa la domanda di automobili apriva buone prospettive di vendite, nel vecchio continente il calo degli acquirenti rendeva inutile l’impegno a offrire nuovi prodotti sul mercato. Cosicché, senza volerlo, la ritirata del gruppo italiano ha creato condizioni ancora più favorevoli al successo della strategia dei tedeschi che hanno prepotentemente allargato le loro quote di mercato tanto in Europa che altrove nel mondo.

Il risultato di questi percorsi divergenti è oggi sotto gli occhi di tutti. La tedesca Volkswagen ha annunciato un preconsuntivo 2011 con un utile di 16 miliardi pari a circa il 10 per cento del fatturato: un record straordinario. Mentre la Fiat, pur potendosi gloriare del successo americano, è costretta a definire essa stessa un peso morto la sua presenza produttiva soprattutto in Italia. Tanto che il suo boss, Sergio Marchionne, si è spinto a dichiarare che o si riusciranno a vendere negli Usa molte vetture prodotte in Italia oppure egli si vedrà  costretto a chiudere almeno due dei cinque impianti ancora semiaperti nel paese. Annuncio sorprendente perché riporta al nodo cruciale dei modelli di auto. L’unica e reale novità  Fiat che esce ora dagli stabilimenti italiani è la Panda allestita a Pomigliano. Davvero Marchionne immagina di invadere il mercato Usa con la Panda? Avrebbe fatto più presto a dire che la Fiat intende ritirarsi dall’Italia per concentrarsi negli Usa, come in fondo sognava già  di fare l’avvocato Agnelli.

Ma poiché Fiat e produzione d’auto sono in Italia la stessa cosa ciò significa che il paese rischia di perdere presto un’industria manifatturiera di peso, non solo occupazionale, assai rilevante. La morale della favola è che forse il premier Monti farebbe bene a correre in Germania per chiedere a Herr Piech, il lungimirante capo di Vw, che cosa gli serve per aprire qualche stabilimento a casa nostra. Le paghe tedesche, oltre tutto, sono il doppio di quelle italiane.


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