by Sergio Segio | 11 Marzo 2012 8:34
ROMA – Un “contratto” tra lo Stato e il detenuto. Per un “carcere leggero”. Per 20mila detenuti definitivi che oggi passano il tempo chiusi in cella. Un accordo che, se infranto, comporterebbe l’inasprimento della pena. Giovanni Tamburino, ex presidente dei tribunali di sorveglianza di Venezia e Roma, al suo attivo la famosa inchiesta sulla Rosa dei venti e la richiesta d’arresto per il generale Miceli, parla per la prima volta con Repubblica da quando il Guardasigilli Paola Severino l’ha scelto per dirigere le carceri. Dà un dato: «calano i detenuti in Italia». Davvero? E che sta succedendo? «Le ragioni sono due: l’effetto delle nuove leggi, impropriamente definite “svuota carceri”, e un calo del numero dei reati puniti con la detenzione. I due fattori portano a una lievissima flessione che contiene un elemento assai interessante, l’andamento discendente è sì molto lieve, ma costante. Andiamo da un picco di quasi 69mila detenuti a metà 2010 a 66.600 di qualche giorno fa». Allora perché costruire nuove carceri? «Non se ne può fare a meno perché comunque, rispetto ai 47-48mila posti effettivi, abbiamo 66mila detenuti e lo scarto è intollerabile. L’Italia è nella media europea quanto al rapporto popolazione-detenuti, mentre è molto al di sotto in quello posti carcere-detenuti». Di quanti posti avreste bisogno? «Tra Rieti, Cagliari, Oristano, Tempio Pausania, Avellino e anche altri disporremo in tempi brevi di circa 3mila posti in più. Ma ce ne vorrebbero almeno altri 7-8mila». Lei è qui da venti giorni. In quanti le hanno chiesto un indulto o un’amnistia? «Vivo nel mondo delle carceri da oltre dieci anni, ne ho visitate tantissime, e ovviamente i detenuti lo chiedono. Da quando sono qui, percepisco ancor più questa attesa. Ma come dice il ministro Severino ogni iniziativa al riguardo è strettamente politica». Ci dà un’istantanea delle patrie galere? «L’immagine è molto variegata. Ci sono zone con condizioni positive e accettabili, altre intollerabili. C’è una grave insufficienza per le offerte di lavoro. Questo è uno degli elementi più pesanti nella quotidianità , perché porta all’abbrutimento di chi sta dentro, in quanto l’ozio senza alternative ti uccide». E la macchina che dirige? «Ha risorse umane molto ricche, ma non riesce a metterle a frutto. Gli stessi poliziotti penitenziari non possono limitarsi al gesto tradizionale di aprire e chiudere la cella, devono diventare specialisti nel rapporto umano con i detenuti». Utopia? «No, avanzamento culturale possibile che cambierebbe non solo il gusto di fare questo lavoro, di per sé ingrato, ma pure le condizioni di sicurezza». Pensa a un carcere leggero? «Vi sono detenuti, certamente non tutti, in grado di assumere un impegno e di rispettarlo. Chi contravviene al patto dovrà pagare seriamente il tradimento. Ciò cambierà la vita interna in carcere e le modalità della custodia». Che patto sarebbe? «Un modello cui ispirarsi è il carcere di Bollate, pensato oltre 10 anni fa da Francesco Gianfrotta, allora responsabile della direzione generale dei detenuti e da me, che ero all’ufficio studi. Lì il soggetto resta “libero” per buona della giornata e lavora». Quanti detenuti coinvolgerebbe? «Si può realisticamente pensare che circa la metà dei definitivi, intorno a 20mila, potrebbe essere coinvolto con buoni risultati». Non pensa alle reazioni della Lega? «Di sicuro il carcere “aperto” non può andar bene per tutti, perché le esigenze di sicurezza sono molto diversificate. È ovvio che non penso assolutamente a quel tipo di detenzione per mafiosi e violenti». Non è solo propaganda? «Già adesso lavora il 20% dei detenuti, troppo poco. E ci sono esperienze positive come quelle di Padova e della Gorgona. Altre lo erano e sono state abbandonate, come Pianosa e l’Asinara. Forse non è stata una decisione saggia, anche perché, soprattutto a Pianosa, le strutture erano in ottime condizioni e non compromettevano l’ambiente. È stato un vero e proprio spreco di risorse». Braccialetto. Il Viminale ha rinnovato il contratto Telecom da 10 milioni di euro. Lo usate o solo uno spreco? «La gestione è affidata in via esclusiva al Viminale. Il Dap non ha nessuna contrarietà ad usarlo. Il punto è che pochissimi magistrati hanno chiesto finora di applicarlo. A mio parere occorre rivedere la questione perché se da oltre 10 anni si paga molto per un servizio pressoché inesistente, è evidente che qualcosa non va». Il carcere fa notizia per le condizioni disumane dei detenuti e per i suicidi, già 11 nel 2012. E lei? «Rispondo con uno slogan: “più sicurezza per la società e meno carcere”, perché l’equazione “più sicurezza uguale più carcere” è falsa. Bisogna costruire pene alternative con una grande forza deterrente, diverse dal carcere. La cella è una medicina pesante e con molti effetti collaterali. Va somministrata solo in caso di effettiva necessità ».
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