by Editore | 29 Marzo 2012 6:39
Il primo biglietto è scritto come una lettera affettuosa: «Caro amore, sono qui che piango, stamattina sono uscito un po’ presto, volevo salutarti ma dormivi così bene», scrive. E poi continua: «Ho avuto paura di svegliarti. Oggi è una brutta giornata, chiedo perdono a tutti». Il secondo biglietto comincia come un documento ufficiale: «Sono C. Giuseppe, nato il…, ho sempre pagato le tasse, poco ma sempre. Quello che ho fatto l’ho fatto in buona fede. Lasciate in pace mia moglie, lei è una brava donna. Chiedo perdono anche a voi». Il terzo biglietto è un addio scritto a tutte lettere maiuscole: «Vado a trovare tutti di là ».
Giuseppe C., 58 anni, li posa sull’asfalto uno vicino all’altro, assieme al portafogli coi documenti. Risale sulla sua vecchia Punto parcheggiata lungo un muro, a venti metri dall’ingresso degli uffici della Commissione tributaria, il «tribunale delle tasse». La macchina è piena di benzina. Un accendino. Un rogo. Una palla di fuoco in una strada di periferia.
Così ha provato a morire un muratore, ieri mattina, a Bologna. «Mi volevo uccidere, voglio morire, voglio morire» gridava all’immigrato romeno che ha spento con la sua giacca le fiamme che lo divoravano, agli agenti della Polizia municipale che andavano a sorvegliare l’ingresso a una scuola, che hanno usato i loro giacconi per salvarlo dal fuoco. Ci è quasi riuscito, a morire, stanotte ha lottato ha lungo tra la vita e la morte, col 100% di ustioni, all’Ospedale di Parma. Ha pianificato con cura il suo gesto simbolico, da monaco tibetano, si è immolato di fronte a quel potere che gli chiedeva di pagare decine di migliaia di euro, più denaro di quel che possedesse: e lo ha fatto chiedendogli perfino scusa.
Un dramma di tasse pagate e non pagate, di fatture contestate, di ricorsi e contenziosi, sullo sfondo di una crisi che non dà speranze di recuperare, e che tutto peggiora. Il fratello di Giuseppe ascolta il tigì di mezzogiorno, «artigiano si dà fuoco a Bologna davanti a un ufficio del fisco» e pensa: «Un altro», dopo due minuti arriva la telefonata terribile. «Ci siamo visti sabato, era tranquillo, non mi ha detto nulla», piange sugli scalini dell’ospedale. Forse Giuseppe non ha detto nulla neppure alla moglie. Quando la avvertono, ha un malore, la portano all’ospedale di Budrio. «Non parlavamo mai di questioni di soldi», confessa più tardi agli agenti. Si fa leggere i tre biglietti, si porta le mani al viso, «aveva ricominciato a lavorare lunedì, dopo due mesi fermo per la crisi… «. Al telefono, la sera tardi, non vuole aggiungere altro: «Non mi sono fatta nessuna idea, non so nulla, cercherò di capire».
Un muratore, un piccolo artigiano, ditta individuale, un’attività da ristrutturazioni in casa, piccoli cantieri. Non usa neanche un furgone, dicono i vicini di casa, va in giro con una Punto, la stessa con cui si è bruciato. Non hanno figli, abitano poco sopra Ozzano, a sud di Bologna, in una frazione sulle prime rughe dell’Appennino. Il condominio a due piani ha due leoni di gesso sulle colonnine del cancello. Casa comperata vent’anni fa, non grande, dignitosa. Sul balcone una poltroncina di plastica verde, un posacenere a piede e lenzuola rosa stese ad asciugare. Non c’è un vicino di casa a cui Giuseppe non abbia riparato un piatto doccia, rimediato una crepa nel muro. «Gentile, tranquillo», le descrizioni come quelle che seguono sempre questi fulmini imprevisti. «Da qualche giorno soffriva per un attacco di fuoco di sant’Antonio», racconta una vicina, «era andato a farsi segnare da una signora che fa queste cose… «. «Una persona squisita e cordiale» per il sindaco Loretta Masotti, che lo conosce da quando lei era dirigente della Cna del comune.
Certo, una persona poco appariscente. In una frazione di trecento abitanti lo conoscono solo nel raggio delle scale di condominio. Non sanno nulla di lui la farmacista, la barista, il funzionario della banca, neppure i due muratori storici del paese. Inutile chiedere allora se sapevano dei suoi guai con l’ufficio delle imposte, dei suoi tormenti con le carte bollate. Cominciati nel 2007 con una contestazione per tasse non pagate. Giuseppe fa ricorso alla commissione tributaria, queste cose vanno per le lunghe, ma alla fine gli va male, il primo round è perso, nelle scorse settimane gli arriva una ingiunzione di pagamento per 105 mila euro tra importi non versati al fisco, sanzioni e interessi. Forse è molto più di quanto si immaginava, pensa che sia un errore, un’ingiustizia, un’esagerazione» forse è questo che vogliono dire quelle righe disperate del secondo biglietto, quell’accenno alle «tasse pagate poco ma sempre» e alle cose «fatte in buona fede». Ma non basta, si apre anche un procedimento penale per fatture irregolari, proprio ieri mattina era convocata al Tribunale di Bologna un’udienza tecnica per la causa.
Forse è la goccia che mancava, e le emozioni di Giuseppe, lavoratore come tanti, artigiano come tanti, sempre meno lavoro come tanti, con qualche guaio nel cassetto come tanti, come tanti nel labirinto faticoso delle regole che sono pieni di direzioni giuste e direzioni sbagliate, quelle emozioni traboccano ieri mattina all’alba, l’alba piena di lacrime di «una brutta giornata». Si alza presto, non sveglia la moglie che dorme, le lascerà scritto di consolarsi in qualche modo, «presto diventerai zia, saranno tutti contenti e anche tu», agli esattori chiederà di non prendersela con lei, manda «un bacio a tutti», sale sulla macchina da cui non ha più intenzione di scendere, venti chilometri per arrivare a Bologna, venti chilometri di pensieri neri, infine parcheggia davanti al castello della sua disperazione.
La politica ora si angoscia, si allarma, dice «disperazione sociale», «crisi che stritola». Decine di suicidi di imprenditori, artigiani, lavoratori negli ultimi mesi. Chi lo sa di quanti di questi Giuseppe aveva sentito al telegiornale. Nel piccolo condominio sopra Ozzano si piange per le scale. Nessuno può credere che si possa morire per protesta davanti a un ufficio delle tasse. Nessuno vuole credere che questo mondo ci abbia ridotto così. Borsa della spesa in una mano, un pacchetto regalo da bambini nell’altra, con la voce rotta impreca «siamo carne da macello, ecco cosa siamo».
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