by Editore | 21 Marzo 2012 7:20
ROMA – Furibondo e deluso. «Il governo ha condotto male il confronto. E non capisco tutta questa fretta. Per un viaggio in Cina?». Chiuso nella sua stanza a Largo del Nazareno, Pier Luigi Bersani segue in tv la conferenza stampa di Mario Monti e Elsa Fornero. Sembra quasi parlare direttamente con il premier e il ministro del Lavoro. «Rompendo il tavolo, il presidente del Consiglio si è mosso non calcolando le conseguenze per il Paese, non per il sindacato, non per la Cgil». Aleggia l’accusa di di «irresponsabilità del premier» nella sede del Pd. In cima ai pensieri del segretario c’è una riforma non condivisa, l’intervento pesante sull’articolo 18. Ma anche gli effetti devastanti che avrà il nuovo mercato del lavoro sul Partito democratico. Il Pd rischia di spaccarsi? «Certo», è la risposta secca del vicesegretario Enrico Letta.
A questo punto, decreto o legge delega, cambia davvero poco per i democratici. La resa dei conti comincia subito. Bersani punta sulle modifiche in Parlamento. Con una certa irritazione si lascia sfuggire che «se il governo accetta veti sulla Rai e modifica le liberalizzazioni alle Camere, accetterà anche interventi su un provvedimento molto più serio, molto più delicato». Ma nel suo partito i filo-Monti hanno già indossato l’elmetto. «Il provvedimento del governo sarà comunque blindato», dice Paolo Gentiloni senza nascondere la sua soddisfazione. Per molti versi sugli ammortizzatori e sulla flessibilità in uscita Fornero è andata oltre Pietro Ichino, il vate della componente “riformista” del Pd: Apsi ridotta a un anno e modello tedesco, sui licenziamenti economici, che va a farsi benedire. «Ma noi non abbiamo alternative. Proveremo a cambiare, faremo le nostre proposte. Ma la strada è questa e il Pd non può tirarsi indietro». Oggi no, ma domani sì. Con una lunga agonia di partecipazioni a cortei a titolo individuale, di interviste, di minacce e di scissioni sempre annunciate. Un quadro drammatico per il segretario che dovrà cercare di tenere tutto insieme quello che insieme non è. «Circoscrivere le differenze per provare a colmarle. È la frase che ho sentito dire a Bersani – ricorda Gentiloni -. Io credo che possa farcela».
La mossa del verbale era apparsa a molti, andreottianamente, una sottile via d’uscita offerta a Monti per il sindacato e soprattutto per il partiti. Il Pd, in particolare, che si trova a dover combattere sul territorio la partita delle amministrative con due oppositori di Palazzo Chigi, Vendola e Di Pietro. Le parole di Monti in conferenza stampa hanno invece sancito, di fatto, la firma di un «accordo separato», non diverso da quelli sempre inseguiti da Berlusconi e Sacconi per piantare la loro bandierina anti-Cgil. Così il premier ha messo ancora più in difficoltà Bersani. Che adesso rischia l’isolamento nella maggioranza con Pdl e Udc, la spaccatura nel partito e sa bene di non poter contare sull’appoggio di Giorgio Napolitano. Anzi. Il presidente della Repubblica terrà fede al patto istituzionale stretto con Monti. Non offrirà sponde. Tanto più che la riforma del mercato del lavoro è materia principe del programma di emergenza.
Bersani è dunque davanti alla partita della vita. Lo è anche il Partito democratico, che si gioca la sopravvivenza. L’appuntamento è il voto in aula. Letta aiuterà il segretario a mediare. Ma cresce l’insofferenza per gli atteggiamenti di Fassina, per la scelta che secondo Francesco Boccia il partito è chiamato a compiere una volta per tutte: «Spezzare il cordone ombelicale con la Cgil, regolare i conti con il sindacato». E con i suoi voti per andare in mare aperto, alla ricerca di nuovi consensi, di altre identità . Il Parlamento è sovrano, dice Bersani. Ma nelle sue poche righe di dichiarazione ufficiale, segno di un brutto momento, non c’è quella frase magica pronunciata sulla Rai: «Non farà cadere il governo per questo». Cesare Damiano, ex sindacalista, oggi deputato democratico, non crede nemmeno un po’ che la Cgil torni indietro. O che lo faccia il governo: «È dura. Cominceranno veti incrociati e nessuno riuscirà a trovare il bandolo». E allora come voterà il Pd in Parlamento? Prima della battaglia, dei vertici, delle trattative politiche, oggi esistono due Pd. Che non si nascondono, che non fanno finta di andare d’accordo. Che sono consapevoli di un passaggio vitale. E che solo Bersani può rimettere insieme. Senza pensare alle foto di Vasto, alla grande coalizione, al dopo Monti. Ma solo a se stessi, al futuro dei democratici.
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