by Editore | 24 Marzo 2012 9:58
«Per gli adolescenti di oggi non si può più parlare di lutto dell’infanzia, ma di lutto del futuro. Da sempre amano e odiano il tempo che hanno davanti, perché non sanno cosa gli riserva, né cosa potranno fare o essere. Ma ora la perdita di contatto con la rappresentazione dell’avvenire è disperante. Alla faticosa ricerca di una loro verità rispetto alle identificazioni infantili, i ragazzi sentono di avere davanti un ostacolo insormontabile che sbarra la strada della crescita. Si dedicano allora al culto dell’eterno presente dichiarando in coro che l’adolescenza è la stagione più bella della vita e la cosa migliore da fare è rimanervi il più possibile».
Chi parla è Gustavo Pietropolli Charmet, 74 anni il prossimo giugno, psichiatra di formazione freudiana, grande terapeuta di giovanissimi pazienti, autore di un nuovo libro dal titolo cosa farò da grande? il futuro come lo vedono i nostri figli (Laterza, pagg. 148, euro 15). A leggere le sue pagine a tratti indignate, aumenta il sospetto che i futuri bamboccioni o anche sfigati, secondo l’espressione «tecnica» coniata più di recente, siano scoraggiati in partenza e sospinti al fallimento. Nell’età degli entusiasmi anche facili, in cui si teme e si morde il futuro, è proprio questa la parola che viene cancellata dal vocabolario: con effetti particolarmente nefasti sugli adolescenti. Perché, scrive Charmet, «colpisce al cuore il sistema motivazionale».
Cosa possono fare gli adulti «competenti» – genitori e insegnanti, innanzitutto – per restituire la speranza a questi ragazzi più rassegnati che nichilisti?
«Intanto dovrebbero smetterla di vestire i panni delle moderne Cassandre e lanciarsi nelle profezie più nere. Tutti gli scenari catastrofici trasmettono un messaggio intollerabile per la mente degli adolescenti, e cioè che ormai non c’è più «posto» per loro, che la pacchia è finita, proprio come il petrolio e l’acqua… Non è così che si reclutano i loro ideali, la loro capacità di sperare, il loro intrinseco bisogno di cambiamento, a favore di una svolta culturale, etica, relazionale, politica».
Che intende dire?
«Voglio dire questo: genitori e docenti dovrebbero costituirsi come garanti convincenti che tocca proprio a loro, ai più giovani, assumersi il compito eroico di salvare non solo l’economia disastrata ma addirittura l’intero pianeta, e scoprire quale sia il livello di sviluppo compatibile. Per i ragazzi non ci potrebbe essere un futuro più interessante e avventuroso. Perché in realtà non solo il futuro esiste, ma è proprio il loro tempo».
Nobile e incoraggiante… Ma la nostra scuola, pensa davvero che possa assolvere a un compito così alto?
«Penso che l’assenza d’interesse del nostro sistema formativo su cosa succederà , come andrà a finire, quali saranno le esigenze, i bisogni, i grandi progetti e le speranze da coltivare, ha un effetto micidiale sulla percezione da parte dei ragazzi di quale sia l’investimento che le generazioni dei padri e dei nonni fanno su di loro».
Com’è la scuola vista dagli adolescenti, secondo lei?
«Vecchia, vecchissima. Nei metodi, nei programmi, nello stile relazionale, nella definizione degli obiettivi. Nella stessa età dei docenti. In più, terribilmente conservatrice per la devozione smisurata del passato, lo sguardo distratto e disfattista sul futuro, e quell’idea del presente come anticamera di un inevitabile e inglorioso declino: in alcun modo riscattabile da chi sarebbe direttamente condannato a subirlo».
Sarà la sensazione di impotenza a produrre adolescenti un po’ depressi e un po’ maniacali?
«Gli appuntamenti con la depressione da scacco evolutivo sono disseminati lungo la strada della crescita. L’adolescente può attenuare il suo dolore mentale con droghe, alcol, ritiro sociale, comportamenti rischiosi, ossessione della realtà virtuale: tutto il preoccupante repertorio di scelte antidepressive praticate con risultati sintomatici anche soddisfacenti, ma con rischi troppo elevati per la gravità delle conseguenze sul lungo periodo».
L’esperienza con i ragazzi quanto ha modificato il suo modo di «curare»?
«L’arrivo recente degli adolescenti nel setting analitico ha contribuito ad accelerare il processo di cambiamento delle regole della cura. Per quanto mi riguarda, ho accolto con favore la loro istanza che suona pressappoco così: aiutami a capire quali siano i miei veri pensieri, cerchiamo le parole per raccontare la mia storia, ma soprattutto fai in modo che io possa capire cosa farò da grande… Oggi mi sembra molto più di dover restituire un futuro pensabile che ricostruire un passato rimosso».
La clinica con i giovanissimi suggerisce qualcosa alla psicoanalisi che può riguardare anche gli adulti?
«Anche per gli adulti si sta affermando il concetto di fasi della vita, e sempre più si condivide il valore del processo di soggettivazione. Nella stanza dell’analisi non basta tornare bambini e riparare i danni dell’infanzia. Spesso, per riorganizzare il presente, è necessario ricordare e magari ritrovare il sogno dell’adolescenza. O anche disfarsene».
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