by Editore | 29 Marzo 2012 8:33
ROMA – «Punti Verde Qualità » di Roma: è l’ultimo scandalo che ha colpito la capitale. Le indagini della procura della Repubblica sulle opere pubbliche progettate e realizzate con fondi privati su terreni comunali hanno portato in carcere quattro persone, fra imprenditori e funzionari comunali, con l’accusa di corruzione e truffa ai danni del comune. Ma cosa sono i Punti verde qualità ? Quando nascono e per quali scopi? E qual è il meccanismo di gestione nel quale si inseriscono agevolmente gli eventuali corruttori e corrotti?
Tutto inizia con la prima giunta Rutelli che nel 1995 lancia la sperimentazione per la «Realizzazione e la gestione delle aree di proprietà comunale abbandonate o delle aree verdi non attrezzate o insufficientemente attrezzate». Il comune mette a bando grandi aree verdi che gli assegnatari avrebbero dotato di impianti e servizi, in parte a pagamento, in parte di libera fruizione, curando la manutenzione dell’intera area.
I Punti verde qualità (Pvq) sono una delle tante modalità di gestione del verde pubblico di Roma, «città più verde d’Europa». Meravigliose ville storiche, grandi aree protette a ridosso della città , parchi e giardini di quartiere: un patrimonio immenso e molto costoso. Per far fronte alle ingenti spese a metà degli anni Novanta il comune di Roma avvia «concessioni a costo zero», partenariati che affidano a privati – associazioni, cooperative, società – la manutenzione del verde pubblico in cambio di benefici di vario tipo a seconda della convenzione firmata. Oggi viene gestito così il 5% del verde pubblico romano, quasi 180 ettari, un’estensione di poco inferiore a quella di Villa Pamphili. Una buona pratica di collaborazione fra pubblico e privato? Nel caso dei Punti verde qualità forse no.
«Innanzitutto c’era un problema di risorse», racconta Loredana De Petris, all’epoca assessore alle politiche ambientali. «Quando vincemmo le elezioni, nel ’93, trovammo una situazione economica e organizzativa molto seria tanto che si ipotizzò anche di dichiarare il default del comune». Si optò, invece, per la via del risanamento, ideando strumenti di manutenzione del verde che, affidandosi a soggetti esterni, non gravassero sulle malridotte casse comunali. A fronte di un numero sempre crescente di aree verdi, il Servizio Giardini di Roma subisce infatti una forte riduzione di personale: tra il 1996 e il 2003 il numero di giardinieri e operai passa infatti da 1.124 a 612 unità .
«La proposta è partita – conferma l’architetto Stefano Mastrangelo, allora direttore del dipartimento per le Politiche ambientali e agricole del comune – dalla constatazione dell’enorme patrimonio di spazi pubblici destinati a verde che il comune non avrebbe mai avuto le risorse né per attrezzare né per manutenere. Nei quartieri di periferia l’offerta di verde era addirittura superiore alla domanda, ma erano lande desolate. Per evitare il degrado e gli atti di vandalismo pensammo di dotarle di attrezzature e servizi, in modo equilibrato, per stimolare una maggiore e migliore frequentazione».
Non tutto, però, è andato per il verso giusto. Delle 75 aree messe a bando dal comune nel 1995, solo 18 sono state effettivamente riqualificate, attrezzate e oggi sono aperte al pubblico. Neanche 130 ettari a fronte degli oltre 1.000 previsti dal bando. In 10 aree i cantieri sono ancora aperti e per tutte le altre i lavori non sono stati mai avviati: le aree giacciono, ora come allora, in uno stato di abbandono. Ma come si è arrivati a questo punto?
«Su molte aree ci sono stati subito tantissimi problemi: occupazioni abusive o vincoli paesaggistici e archeologici – racconta De Petris – Alcuni lotti inizialmente individuati non sono stati inseriti nel bando». Un lavoro lungo e faticoso a causa delle negligenze decennali dell’amministrazione comunale che non era a conoscenza delle aree di sua proprietà .
«Si capiva dall’inizio che sarebbe stato un fallimento» afferma deciso Paolo Berdini, urbanista e attento osservatore dei processi di costruzione della città . «Non c’è dubbio che la manutenzione costa – prosegue – ma limitandosi a denunciare la mancanza di risorse economiche, non ci si è chiesti quanto sarebbe costato». Le aree inserite nel bando, inoltre, sono state scelte senza criterio specifico, se non quello della loro disponibilità immediata. «Sono gli anni del trionfo della concezione economicistica della città – ricorda Berdini – Il ragionamento mancato è che deve essere il pubblico a decidere quali aree vanno a bando, dare indicazioni precise, scegliere dove porre un’attenzione maggiore, su una specifica area, nei quartieri di edilizia pubblica. Ci voleva una forza che il pubblico non ha più».
Molte aree del bando erano destinate a verde e servizi già dai “Piani di Zona” del Piano regolatore, secondo le disposizione della legge 167 del 1962 sull’edilizia economica e popolare. Erano quindi spazi inseriti in un ragionamento urbanistico di cui non vi è più traccia nel bando che si limita a prevedere soltanto un elenco di servizi e attrezzature «obbligatori» e «compatibili». In ciascun Pvq l’imprenditore avrebbe dovuto costruire una ludoteca, un parco giochi, un punto ristoro, spazi espositivi e servizi socio-culturali. Una lista valida per tutte le aree, generica e approssimativa che non obbligava a un preventivo studio del territorio, né una verifica dei bisogni degli abitanti. «C’è un po’ di semplicismo in quell’elenco. Per poter dare un’indicazione precisa – riflette Stefano Mastrangelo – avremmo dovuto fare una pianificazione sul territorio, di settore, sulle attività sportive e ludico-ricreative. Bisogna avere una strategia su tutta la città ». Strategia su cui l’amministrazione comunale non ha lavorato, lasciando la valutazione ai privati. Ma «il pubblico non può delegare ad altri quello che è il suo compito specifico» commenta Berdini. «La cosa dolorosa è la privatizzazione della sfera pubblica».
Lasciati senza indicazioni specifiche, gli imprenditori hanno realizzato le strutture economicamente più redditizie e non quelle socialmente più rilevanti. È difficile infatti che un privato investa, per esempio, su sport minori, realizzando un campo d’atletica o una palestra per la pallavolo. Quasi sempre sono stati costruiti campetti da calcio, piscine e palestre per il fitness, anche in una stessa zona, a poca distanza fra loro, con una duplicazione dei servizi. Come nel caso del Pvq Grottaperfetta a Cinecittà dove sorgeranno una palestra, una piscina e un centro sportivo. «Si persevera nel costruire strutture sportive – denuncia il Wwf Lazio – in una porzione della città in cui l’offerta è largamente in grado di soddisfare la richiesta di settore, mistificando nuovo cemento come forma di riqualificazione, di fatto degradando il territorio».
Un altro errore del bando sta nel fatto che il direttore dei lavori sia scelto dal concessionario e non dalla pubblica amministrazione. Il mancato controllo sull’effettiva realizzazione dei progetti ha dato vita a Punti Verde Qualità in cui lo spazio pubblico e fruibile da tutti è ridotto al minimo, come al Centro sportivo Perconti dei Colli Aniene dove sono sorti servizi lontani dalla nozione di “verde pubblico”. O come il McDonald’s ai Parchi della Colombo e in via Romagnoli a Dragona, o dove è prevalso l’interesse commerciale su quello pubblico come il cinema Stardust Village all’Eur, dove i residenti hanno dovuto lottare per mesi prima di veder realizzato il parco pubblico intorno al cinema.
Naturalmente ci sono anche casi di imprenditori onesti e volenterosi che hanno realizzato impianti sportivi per i disabili o promosso attività socialmente utili. Rare e fortunate eccezioni. Come il caso del Pvq La Rustica, periferia est di Roma, aperto un anno fa con il plauso dei residenti. «Un evento che attendevamo da molto tempo. In questi anni – si legge nel blog del comitato di quartiere – abbiamo ottenuto, in corso d’opera, dei miglioramenti al progetto iniziale, anche grazie alla disponibilità del concessionario, la Polisportiva Roma Sud». Da spazio inutilizzato e degradato, il parco è oggi un luogo di ritrovo molto frequentato da adulti e bambini.
Un punto cruciale è l’aspetto economico-finanziario. Perché si è giunti al paradosso di un programma nato per sgravare l’economia di un’amministrazione già in crisi di bilancio e che rischia invece di affossarla ancora di più?
«Il meccanismo economico non era stato approfondito», risponde candidamente Mastrangelo. «Per un “vizio ideologico” dell’allora giunta di centro-sinistra», riconosce Foschi. Per timore di possibili privatizzazioni delle aree da parte di privati, infatti, i destinatari ideali del bando sono le polisportive, le associazioni, le onlus, le cooperative. Tutti soggetti senza grandi disponibilità economiche, inadatti a sostenere un simile sforzo imprenditoriale. Per questo la giunta Rutelli prevede agevolazioni nei prestiti e decide che a farsi garante verso le banche in caso di morosità del concessionario sarà il Comune. I privati che non ce l’hanno fatta a sostenere l’impresa «hanno avviato una compravendita delle concessioni, procedura non contemplata dal bando, nel disinteresse colpevole dell’amministrazione», racconta Enzo Foschi, allora consigliere comunale di maggioranza e autore della denuncia in procura nel 2010. Oppure hanno smesso di pagare le rate dei mutui, obbligando il comune a farsi carico dei debiti. Come nel caso del debito di quasi 2 milioni di euro contratto dalla VigorPerconti di Colli Aniene.
E se tutti i Pvq di Roma fallissero? Si creerebbe un buco nelle casse del comune di Roma di proporzioni spaventose: fino a 350 milioni di euro, secondo un’associazione che riunisce alcuni imprenditori dei Pvq. Nonostante il rischio, nel 2006 il comune ha confermato il meccanismo, concedendo, con due apposite delibere, una fidejussione per favorire l’accesso al credito per i concessionari, stipulando un accordo con la Banca di Credito Cooperativo. Orlando Garimberti, imprenditore che gestisce un Pvq di Ostia, chiede invece «la sostituzione del regime fidejussorio con un diritto di superficie che liberi il Campidoglio da responsabilità per insolvenza». Secondo le regole tradizionali del project financing il suolo resta pubblico mentre il privato, in cambio di una concessione di 99 anni, accede al mutuo ipotecando il bene. Il Comune non mette più garanzie e i rischi finanziari sono azzerati».
«Sui meccanismi di revoca della concessione in caso di morosità del privato – racconta Mastrangelo – abbiamo scoperto che sono veramente difficili da attuare. Tirare fuori un concessionario moroso da un Pvq è un’operazione complicata, perché fa opposizione agli atti e dovresti sgombrarlo con la forza pubblica». E infatti è successo una sola volta, al Pvq di via Madonna di Campiglio, che venne chiuso dal comune per rimettere a bando l’area e trovare un nuovo imprenditore. «Dopo 10 giorni abbiamo dovuto riaprire – racconta Mastrangelo – per le forti proteste dei clienti che non volevamo perdere l’abbonamento sottoscritto».
Dall’idea iniziale dei Pvq si sono sviluppati altri programmi per l’affidamento a privati di aree pubbliche, come i Punti verde Ristoro e Infanzia. Anche qui, pur in misura minore, non sono mancate polemiche e denunce dei residenti sulla tendenza di alcuni gestori di allargare l’area a loro disposizione, a scapito del verde pubblico.
Con i Punti Verdi Qualità si era individuata una traiettoria per la partecipazione dei privati nella realizzazione e gestione di opere pubbliche. Principio valido se le regole sono chiare e con una mano pubblica capace di guidare i processi, di indirizzare l’iniziativa economica vincolandola entro precisi limiti, attuando severi controlli per tutelare l’interesse collettivo. Il pubblico, invece, delegando uno dei suoi compiti principali, ha fatto un passo indietro, rinunciando, di fatto, a fare il pubblico. E anzi, a quanto emerge in questi giorni dall’inchiesta della procura, si è dato vita a un complesso sistema di corruzione e abuso di potere.
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