Piccole svolte riflessive dei ceti dominanti

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Per quanto molto ambiziosa, la lettura del Manifesto per la Costituente della cultura («il Sole 24 Ore», 25/2/2012) da parte di Michele Dantini di generazione TQ («il manifesto», 29/2/2012) e non è necessariamente la più calzante o la più utile. Il Manifesto per la Costituente della cultura non è anzitutto un testo particolarmente articolato o ambizioso sul piano dell’analisi. Si tratta di 25 righe in cui vengono riassunte poche schematiche proposte rivolte al governo, in cinque capitoletti: 1) riconoscimento della centralità  della cultura ai fini dello sviluppo, come già  riconosciuto dalla Costituzione; 2) non lasciare più al «giorno per giorno» le politiche della cultura ma adottare una strategia di lungo periodo; 3) coordinamento delle politiche culturali attraverso una stretta cooperazione tra tutti i ministeri competenti; 4) riconoscimento della centralità  dell’educazione all’arte, sia in termini storici che di pratiche creative; 5) importanza della valutazione del merito nella ricerca e della diffusione dell’idea che la partnership pubblico-privato deve essere uno strumento fondamentale di gestione del patrimonio pubblico. È, insomma, un appello al governo Monti motivato da una forte fiducia nella volontà  e nella capacità  di un governo «tecnico» – a differenza di quelli «politici» – di accogliere delle richieste vecchie ma mai effettivamente accolte.
Rischi di semplificazione
La lettura che Dantini fa del Manifesto presenta alcune forzature che finiscono col fraintenderne tanto alcuni contenuti quanto l’ispirazione di fondo. Agli autori del Manifesto viene attribuita ad esempio un’insistenza sul tema della «complementarità » tra stato e privati, che compare invece una sola volta e su una questione piuttosto specifica. Dantini costruisce poi un’ambiziosa interpretazione sulla «correlazione tra cultura, valori e territori» che rimanderebbe a un’impostazione politico-culturale sostanzialmente leghista o persino «neoguelfa», salvo scoprire che nel documento non compaiono mai né la parola «valore» né quella «territorio». Si accusa poi il Manifesto di propendere, sotto l’ambigua bandiera della «valorizzazione», per una mercificazione del patrimonio storico-artistico, laddove il documento è al riguardo molto più sfumato, allontanandosi dai proclami dei privatizzatori del patrimonio come De Michelis o Tremonti, tanto che l’appello è stato sottoscritto anche da Salvatore Settis, il critico da sempre più spietato della visione «mineraria» dei beni culturali. 
La posizione di Dantini non è tutta riducibile a questi elementi e contiene anzi diversi giudizi condivisibili. Nel complesso essa rischia però di caricaturizzare un pur criticabile documento e di demonizzarne gli autori col risultato di far apparire irrilevanti le questioni da esso poste. Gran parte di tali questioni non sono invece affatto irrilevanti e il disagio e i bisogni che esso esprime non sono tutti riducibili a un rapace progetto neoliberista o neoguelfo. Il Manifesto può essere insomma letto anche come espressione di alcune domande di attenzione ai beni comuni che attraversano sinceramente la borghesia e i «ceti riflessivi italiani». Domande che non solo ci riguardano direttamente, ma che dovremmo essere noi a porre prima, più fortemente e soprattutto più coerentemente di quanto faccia e possa fare l’organo di Confindustria. 
Una lettura attenta del Manifesto rende ben evidente tra l’altro che la fonte principale della sua ispirazione è l’elaborazione dello stesso Settis, espressa soprattutto nei libri Italia S.p.A. e Paesaggio Costituzione Cemento. Proviene da Settis, anzitutto, l’enfasi posta sull’articolo 9 della Costituzione ma anche la messa in guardia contro l’economicismo contenuta nell’articolo di lancio del Manifesto («il Sole 24 Ore», 19 febbraio), la richiesta di coordinamento delle competenze istituzionali oggi catastroficamente polverizzate, quella che lo Stato si doti di politiche coerenti e lungimiranti, quella di rafforzare l’educazione in campo artistico e paesaggistico con finalità  civiche e quella degli sgravi fiscali. Ma settisiano è soprattutto l’atteggiamento di interlocuzione forte con le istituzioni a partire da un’ispirazione democratica e civica. Se tutto questo fosse vero vorrebbe dire che sta iniziando a fare breccia il lungo e cocciuto lavoro di tutti coloro che in questi ultimi dieci anni hanno cercato di riproporre la questione del patrimonio storico-artistico, del paesaggio e del territorio come grande questione nazionale. 
Quale capacità  abbiamo avuto come sinistra di cogliere tutte le implicazioni e le potenzialità  di questa proposta? Relativamente poca, mi pare. Se la questione dell’acqua è stata proposta – giustamente – come un grande paradigma dei beni comuni e quindi di un altro progetto di società , il territorio lo è stato meno e il patrimonio storico, culturale e paesaggistico quasi per nulla.
Ciò non vuol dire che il Manifesto per la Costituente della cultura sia internamente coerente o condivisibile. Dantini ha ad esempio ragione quando osserva che si tratta di un documento pasticciato, e il primo e maggior pasticcio sta nella traballante connessione tra due accezioni di «cultura». Nel documento infatti si sovrappongono disordinatamente e si confondono la questione della formazione e della ricerca e quella dei beni culturali e del paesaggio. Se poi si scende nel dettaglio delle proposte ci si rende conto che esse derivano da una giustapposizione di idee correnti di diversa provenienza, a volte persino contraddittorie. 
Il Manifesto parte infatti dal patrimonio con l’impegnativo richiamo all’articolo 9 della Costituzione per affermare subito subito dopo che il «discorso deve farsi economico», con un ripiegamento cioè verso un utilitarismo piuttosto strumentale mentre nel secondo punto parla della «valorizzazione delle culture, puntanto sulla capacità  di guidare il cambiamento», con un linguaggio che indica come si sia inavvertitamente scivolati – e in modo piuttosto banale – sulla questione della formazione e della ricerca in generale. Nell’ultimo punto, infine, si accavallano ancora una volta incoerentemente le due dimensioni con un richiamo alla cultura del merito e della valutazione della ricerca da un lato e dall’altro con un’invocazione dell’intervento dei privati nella gestione del patrimonio pubblico.
Accenni di autocritica
Credo insomma che sia possibile una lettura del Manifesto per la Costituente della cultura come un appello al tempo stesso animato da sincero spirito civico, innervato da ispirazioni molto contraddittorie e parecchio approssimativo. Che tale richiesta provenga dalle colonne del giornale confindustriale, cioè dell’organizzazione che ha sostenuto i tagli lineari alla scuola e all’università  della Moratti e della Gelmini, che ha fortemente voluto una riforma che stravolge in profondità  (e certo non in meglio) l’università  come l’abbiamo conosciuta sin dalle sue origini, che ha plaudito sistematicamente i governi del «piano casa» che faceva strame del territorio e del paesaggio non è certo indifferente. Ma il Manifesto per la Costituente della cultura, nella sua approssimatività , va forse più letto come un sintomo di contraddizioni in seno alla borghesia – se ci è ancora permesso di esprimerci così – che non come un pericoloso cavallo di Troia per privatizzare il poco che è rimasto pubblico oppure come un’ipocrita dichiarazione di nobili intenti volta a mascherare prassi impresentabili. E se così davvero fosse dovremmo riflettere meglio sugli spazi di manovra che si aprono almeno in potenza a noi, quelli dei beni comuni.


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