Perché chi sa leggere la Qabbalà ha una chiave per capire il mondo
E ra stata l’assoluta ritrosia dell’uomo a spingermi, anni fa, sulla tortuosa via che portava alla scommessa di «strappargli» la sua prima intervista. Scopro oggi, alla pagina finale del Qabbalessico, che «una parola condensa tutti i significati e i percorsi che dallo studio della Qabbalà si possono trarre». La parola è ritrosia.
Da quel lontano 1997, Haim Baharier, ora 65enne, è dimagrito ma certo non indebolito, la stanza dove riceve è la stessa, essenziale, la gran barba da grigia s’è fatta candida. Nel frattempo ha pubblicato varie opere, le ha vendute bene, ha riempito i teatri. Boom mediatico, una sorta di corsa ad ascoltare lo strano Maestro di ermeneutica biblica, lo studioso dirompente di Torah e Talmud ch’è insieme psicoanalista, coach per manager di gran vaglia, e chissà cosa altro ancora. C’è da giurare che ci sarà la coda anche al Franco Parenti di Milano dove, il 2 aprile, terrà ciò che pomposamente chiama una lectio magistralis e ironicamente la titola «Polenta e Qabbalà »: il lancio diQabbalessico, specie d’abbecedario anarcoide edito da La Giuntina, manuale di difesa dalla quotidianità , vademecum che taglia le gambe alle promesse magiche e alle esaltazioni religiose, piccoli, profondi graffi che scalfiscono il luogo comune.
Baharier coglie spunti e lancia ami ovunque: precarietà , Suv, (non)etica della finanza, Internet, singletudine, ecologia, gossip, vegetarianesimo. Parla e scrive di democrazia e diversità , di accesso e di separatezza. Di ritrosia. Non è cambiato: «Un tempo avevo solidi amici e solidi nemici, adesso ho un po’ più di nemici solidali». È il rischio dell’uscire allo scoperto, no? «Ricordo quand’ero bambino a Parigi e papà mi portava in un tempio frequentato solamente da reduci come lui, visi scavati e occhi allucinati. Io entravo e subito mi schiacciavo contro il muro, pensavo che i locali degli ebrei fossero tutti così, normalmente pieni di fantasmi. Un giorno papà mi guardò e disse: “Non farti così piccolo, non sei così grande”. Compresi anni dopo l’insegnamento: i timidi sfuggono alla realtà perlopiù in altezza, verso una superiorità consolatoria; gli autentici “piccoli”, i veri ritrosi, sono quelli sempre pronti nella vita a disfarsi in un attimo del proprio bagaglio di certezze; solo i grandi ne sono capaci». Così, con un piede nella globalizzazione e uno nel protezionismo, siamo tentennanti, e le sicurezze sono come corazze. Ma… «Se scegli la corazza sei simile al granchio: lo scheletro che hai come guscio ti lascia molle dentro, e ti mangiano».
A leggerlo e ad ascoltarlo, ci si rende conto che Haim è un po’ ciò che dice, o dice ciò che è: «Gli antichi profeti d’Israele profetizzano il passato, filtrano dal passato gli insegnamenti da bisbigliare al futuro. Se non interpello la memoria e la venero soltanto, non trasmetto, clono». Dalla rockstar Madonna in giù è un circo che straparla di Qabbalà , contrabbandata come materia per pochi eletti, fascinazione svilita e trascinata a terra, perché? «Sono tempi di promiscuità , di idoli-religioni, di magie della Rete. Credo occorra reimmergere il nuovo nell’antico, ritornare a Mosè e alle sue allungatoie. La gente cede al canto delle sirene, alle consolazioni facili, ai misticismi. Le ortodossie che vantano piene le loro scuole e i loro templi mi mettono i brividi».
Mercati, default, paure. «Siamo preda degli alcolisti della finanza. All’alcolista non basta più gustare il buon vino, vuole godere degli effetti che il vino gli dà . E pensare che per i Maestri chassidici mangiare e bere in eccesso ha un significato: l’uomo di fronte a Dio è un esiliato ed essere nel progetto divino significa innanzitutto accettare l’infinita distanza di Dio e da Dio. L’invito non è solo di accettare questa distanza ma di enfatizzarla attraverso una materialità spinta all’eccesso. Bere e mangiare senza misura ti assicurano che sei nei disegni del Dio periferico». In fondo, racconta Haim dei suoi Maestri, se è facile portare la nostra bassezza nel sacro dei nostri templi, perché mai non si dovrebbe portare santità nel profano della nostra tavola?
La distanza, o meglio la separatezza, un concetto su cui insiste moltissimo. Da Qabbalessico: «Le nazioni democratiche sembrano non amare le faglie unificanti, per mettere insieme gettano ponti, vorrebbero tutti sposati e votati a una causa comune. Cercano di appianare le divergenze. In realtà la democrazia autentica dovrebbe nutrirsi di opposizioni, crescere attraverso di esse, non eliminarle ma integrarle… nella tradizione qabbalistica il registro più alto è quello collettivo, dove le diversità si integrano senza squalificarsi. Questo livello esprime una tensione talmente delicata che la sua deriva più pericolosa è l’appiattimento». Servono insomma muri «che uniscono più di qualsiasi ponte», e l’eco delle vicende israelo-palestinesi rimbomba nel centro di Milano. «È la fisicità del discernimento». La distanza serve a capire e comunicare, «guarda in pittura, pensa a Leonardo. Dobbiamo contemplare la distanza e poi vedere se c’è un modo non di colmarla bensì di percorrerla».
E questo libriccino? Baharier dice che vuole venderne molti, cioè essere accessibile, far vedere che la Qabbalà è un mito che qualcuno crede di conoscere. «Nessun qabbalista degno di questo nome, neppure sotto tortura, ammetterebbe di essere un qabbalista. Stuzzicai Moshe Idel (il più grande studioso vivente di Qabbalà dopo la morte di Gershom Sholem, ndr) chiedendogli se lui lo fosse. “Pettegolezzi… sono solo pettegolezzi!”». Che cos’è la Qabbalà ? «Più facile dire ciò che non è. In apparenza è qualcosa che ribalta. Rovescia le parole, conta il valore numerico delle lettere, gioca con te e questo giocare trae in inganno: o la si considera una cosa seria quanto il libretto d’istruzioni del televisore, oppure come un passatempo enigmistico. Si confondono i mezzi con l’obiettivo: sarebbe come reputare alienati i nostri figli perché giocano. Mentre in realtà sappiamo che attraverso il gioco si strutturano. Di certo la Qabbalà ha a che fare con la lettura degli spazi bianchi tra le parole, però una volta che hai letto gli spazi bianchi e scrivi l’interpretazione, hai creato un nuovo spazio nero e lo spazio bianco che si forma in mezzo se la ride».
E che cosa insegna? «Per esempio… a sterminare! Il testo biblico dice che devi sterminare il nemico implacabile dei figli d’Israel, Amalek, lo devi annientare insieme a tutto il suo popolo, donne, bambini, anche i suoi animali. Ovviamente siamo tutti colti, non si parla più del disagio che la prima lettura comporta ed è nostra abitudine leggere sospesi, già ancorati al senso nuovo. La tradizione qabbalistica accetta e promuove l’uso della memoria arricchita dinanzi al testo ma avverte: in prossimità della lingua sacra, la zona è interdetta al volo, s’impone un rapporto stretto, a quota pergamena. Se il testo percuote, devi prendere il colpo in faccia; perché lo vuole il testo e perché solo da contuso potrai afferrarne il senso profondo. Se il testo dice che devi comportarti più o meno come i nazisti con gli ebrei vuol dire che ti sta segnalando una urgenza».
Come nel sonno gli incubi segnalano un allarme? «Sì, esatto. Amalek, capo di un popolo senza nome e senza volto, forse ce lo portiamo dentro, dobbiamo individuarlo in noi stessi e combatterlo fin da bambino, annientarlo». Capire per poi smontare tutto, decostruire per ricostruire. Una sorta di moto perpetuo, per arrivare dove? «Per chiedersi, ad esempio, se questa che hai fatto è una buona domanda o no. È già un primo passo. Sapere dove vado è importante quanto come ci vado, secondo quali principi e quale etica. Capisco che sto camminando secondo un orientamento serio quando i miei principi sono condivisibili da qualcun altro, e avanti così, un passo dopo l’altro».
Si può intraprendere questo cammino senza avere fede, senza credere in Dio? «Lo stai chiedendo a un qabbalista?». No, neanche sotto tortura diresti di esserlo. Sorride. «Beh, questa domanda fatta nel 2012 non è la stessa domanda fatta cento, mille o tremila anni fa». Pausa, poi Haim Baharier dice l’indicibile. «L’Occidente cristiano si fonda sul deicidio, e non parlo della crocefissione di Gesù, né di Nietzsche e la sua morte di Dio…». Quindi spiega, spiega, spiega, e il racconto continua. Infinito come lo studio che ci sta dietro.
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