Passera: «Un anno di recessione»
L’Ocse calcola che nel primo trimestre il Pil italiano è sceso dell’1,6% rispetto all’anno precedente. A catena la Borsa di Milano perde il 3,3%, lo spread tra i tassi dei titoli italiani e quelli tedeschi si riporta a 3 punti percentuali e mezzo.
La recessione italiana è una «non notizia». Tre mesi fa l’Fmi annunciava per il 2012 una caduta del Pil del 2,2%, che si aggiunge alla scivolata del 2008 (-1,2%), al crollo del 2009 (-5,1%), e al ristagno di 2010 e 2011. L’intera Europa (Germania esclusa) è in recessione, ma l’Italia cade più in fretta degli altri. La novità è piuttosto misurare la crisi con il moltiplicarsi dei suicidi di disoccupati e artigiani senza lavoro.
Erano state le rassicurazioni di Monti a far dimenticare il declino e i conti pubblici che continuano a non tornare. Secondo Confindustria oggi la produzione industriale resta del 22% inferiore al livello dell’aprile 2008, prima della crisi: in quattro anni abbiamo perso oltre un quinto della produzione e si può solo sperare di rallentare la perdita, non di recuperare la china. Potrebbe significare quest’anno 800 mila posti di lavoro perduti, mentre le richieste di cassa integrazione continuano a crescere. La riforma Fornero, da questo punto di vista, appare come lo strumento per consentire alle imprese di liberarsi senza difficoltà di un quinto della capacità produttiva e forza lavoro. Ma che tipo di economia – e di paese – avremmo dopo una trasformazione di questo tipo?
L’idea del governo è che produzione e occupazione potrebbero riprendersi non appena le banche torneranno a offrire credito e si realizzino le «riforme strutturali» con più concorrenza e meno costi e tutele del lavoro. A fine 2011 la Banca centrale europea ha offerto alle banche europee 489 miliardi di euro a tassi dell’1%. Ora il ministro (e banchiere) Passera ci dice che quasi nulla di quella liquidità – pari a quasi un terzo del Pil italiano – si è trasformata in credito per imprese e famiglie. Non dice che ha consentito alle banche di tappare i buchi dei propri bilanci comprando titoli pubblici che nei paesi in difficoltà rendono oltre il 6%. Quanto alle «riforme strutturali», non c’è liberalizzazione delle farmacie che possa creare nuova occupazione, né libertà di licenziare che possa attirare investimenti cinesi. Il nodo – che il governo italiano e i vertici europei continuano a ignorare – resta la ripresa della domanda e la direzione dello sviluppo.
Nulla di risolto anche sul fronte della spesa pubblica. Per lo stato la recessione significa circa 15 miliardi di minori entrate fiscali, molto più dei proventi aggiuntivi che potranno venire dalla riduzione dell’evasione fiscale. Ci sono forse15 miliardi da spendere in più per interessi sul debito pubblico, oltre gli 80 miliardi del 2011. E il «patto fiscale» firmato a Bruxelles ci imporrebbe di rimborsare circa 50 miliardi di euro l’anno. La spirale della crisi del debito non si è fermata, le politiche di austerità aggravano la recessione, le rigidità ideologiche del governo aggravano la crisi sociale. E anche la popolarità del governo Monti potrebbe precipitare di fronte alla recessione più grave dal dopoguerra.
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