Partigiana e femminista La donna due volte libera

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Il nuovo libro di Marisa Ombra si intitola: Libere sempre, sottotitolo: «Una ragazza della Resistenza a una ragazza di oggi», pagine 84, 10, ed è edito da Einaudi Stile libero.
Marisa Ombra compirà  tra poco 87 anni, è nata infatti ad Asti il 30 aprile 1925. Staffetta partigiana, è vicepresidente nazionale dell’Anpi. Nel 2006 è stata nominata Grande Ufficiale della Repubblica. I l Sessantotto è iniziato nel Quarantatré. Una guerra di liberazione dentro «la» Guerra di Liberazione. La prima volta che una ragazza, partigiana, si è rifiutata di cucire un bottone a un ragazzo, partigiano. La prima volta che una diciassettenne si è assunta la responsabilità  di un turno di guardia in montagna; o ha saputo domare il suo imbarazzo nel dormire, unica donna, in una stalla, assieme a venti compagni di battaglia. Venticinque anni prima che la promiscuità  nelle aule universitarie occupate suscitasse scandalo o, al contrario, vanità  rivoluzionarie.
«La Liberazione aveva liberato molte cose» scrive, convinta, Marisa Ombra, con una preoccupazione fissa lungo i 23 capitoli e le 82 pagine del suo libro: non fare prediche, non dare consigli, non diventare paternalistica, «come una vecchia zia saccente». A 87 anni, rivolgendosi a un’adolescente di oggi, l’ex staffetta partigiana, l’eterna femminista, cerca piuttosto di ritrovare emozioni, paure e desideri di quella ragazza del 1939, nella consapevolezza che «avere quattordici anni oggi non è molto diverso da averli avuti settant’anni fa»; e che anche i tempi di questa e quella gioventù hanno qualcosa in comune. 
«Nel ’43, quando avevo poco più di 17 anni — ricorda — avevamo alle nostre spalle molte macerie e molto veleno. Esattamente come questa generazione. E anche se le macerie adesso non si vedono, sono dappertutto». Non è dato di sapere chi sia la quattordicenne di oggi che ha ispirato la lettera aperta di Marisa Ombra, quanto sia cresciuta dal loro primo incontro, avvenuto grazie alla mediazione di Ettore, un esuberante labrador biondo, ai giardini di Villa Pamphili, e quanto le siano servite, per maturare, le confessioni di un’ottuagenaria, riluttante finora a metterle nero su bianco per timore di cadere nella pedanteria.
Oggi forse non avrebbero un titolo, Libere sempre, un editore, Einaudi, e un posto sugli scaffali delle librerie, se Marisa Ombra non avesse scoperto un doloroso «inganno, nella frase: il corpo è mio e lo gestisco io». E se non nutrisse un dubbio, più simile a una speranza di riparazione: «Che qualcosa di questo racconto possa arrivare a tutte quelle ragazze convinte che il successo sia un’apparizione di dieci minuti alla tivù, il grande inganno». Di cui non vorrebbe sentirsi responsabile, sebbene involontaria.
«Quando gridavamo in piazza “il corpo è mio e lo gestisco io”, mai avremmo immaginato che quella rivendicazione si sarebbe trasformata in un’arma a doppio taglio» si rammarica l’autrice. Si chiede come sia potuto accadere, come quel grido di indipendenza si sia potuto ribaltare «in una forma di schiavitù volontaria». Nel diritto di una giovane donna di proclamarsi libera e fiera «velina dentro», per esempio. Certo coerente con la libera gestione — ed esibizione — del proprio corpo. Ma in totale contrasto con le intenzioni della generazione che aveva coniato quello slogan: «L’esatto contrario perché il corpo, se esiste solo per essere desiderato e comprato, finisce per esistere in funzione dell’altro. Non è più mio, ma di chi ne gode» ha cominciato ad allarmarsi, fin dalla metà  degli anni 80, Marisa Ombra, quando apparvero «sugli schermi le prime immagini di ragazze che si dimenavano seminude intorno a un presentatore che annunciava colpi grossi».
Non era per quel genere di libertà  che aveva combattuto la sua guerra di liberazione: «Si è realizzato un paradosso: l’autonomia e la capacità  di decidere del proprio destino sono cercate da quelle ragazze attraverso l’asservimento volontario e la perdita della dignità ». 
Non è facile evidenziare la trappola a una quattordicenne, senza tornare ai propri 14 anni e a quello straordinario momento in cui cambia la percezione di se stessi; e del proprio fisico: «Essere bella, è naturalmente, il desiderio più grande. Provi a capire che cosa valorizzerebbe gli occhi, le gambe o altre parti del corpo». Succedeva alle coetanee di Marisa Ombra anche fra la primavera del ’39 e l’estate del ’40, nonostante l’Italia si stesse avvicinando alla guerra. Ma lei stava combattendo un’altra guerra comune alle adolescenti di oggi, contro l’anoressia: non era stata l’ossessione per un corpo perfetto, ma il dolore di un lutto a provocarla. E fu una singolare terapia famigliare a curarla: l’impegno del padre, operaio, della madre, della sorella e di Marisa stessa, diciassettenne, nella Resistenza.
«La Resistenza. Almeno fino al 1982, quarant’anni più tardi, non avevo più pronunciato la parola Resistenza. Era stata per me una scelta talmente naturale — sembra ancora sorpresa la scrittrice —. È stato da femminista, nei gruppi di autocoscienza, che ho ripensato a quel momento».
Neanche questo è molto semplice da spiegare a una ragazzina di oggi. Se non in una chiave universalmente comprensibile, quella della «banda» di giovani che, in quel caso, si formò alla macchia, sconvolgendo antichi equilibri e collaudati rapporti fra i sessi, inaugurando l’era del cameratismo fra maschi e femmine, e una parità  ancora sconosciuta, ma limpida. Almeno nei ricordi dell’ex staffetta: «La Resistenza fu la mia occasione».
Ma chi è nato negli ultimi anni del ventesimo secolo dove troverà  la «sua» occasione? «È più difficile — riconosce Marisa Ombra —. Anche noi avevamo i nostri miti. Magari sbagliati. Come quell’amico partigiano che si faceva chiamare “Stalin” e che morì prima di sapere chi era davvero il suo idolo, senza avere il tempo di restarne deluso». Può già  prevedere a quali delusioni porteranno certi miti di oggi, bellezza e successo, ma si astiene dal giudicare. Sa che ognuna dovrà  combattere la sua guerra di liberazione anche quella dall’illusoria certezza che tutto si riduca a fare «quello che si vuole in quel momento». 
Una ragazza, che sta diventando donna e che l’ha già  capito: «È molto seria e impegnata. Lavora da precaria in campo giornalistico», non vuole dire di più su di lei, chi le ha scritto quella lettera. Ma può capitare di trovarle a chiacchierare insieme, in compagnia di Ettore, a Villa Pamphili.


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