Oppio, Stragi, Vecchie Carabine i Guerriglieri Seguaci di Mao

by Editore | 19 Marzo 2012 7:50

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In India, si dice, tutto è contemporaneo: il passato più remoto e il futuro più immaginifico. Se questa regola è vera, probabilmente vale anche per le correnti politico-sociali, perché è difficile trovare un altro Paese in cui parole d’ordine lanciate da Mao Zedong (Mao-Tse Tung) negli anni Venti e Trenta contendano il consenso al capitalismo tecnocratico e liberista di ispirazione americana o all’economia sociale di mercato di provenienza europea. Nel «corridoio rosso» che corre lungo la costa orientale del Grande Paese asiatico, rintanati nelle foreste, assediati dalle truppe inviate da Nuova Delhi i guerriglieri naxaliti coltivano il culto del Grande timoniere con ortodossa intransigenza e devozione totale.
Maoisti dell’origine 
Nella versione di Mao la rivoluzione comunista doveva fare leva sui contadini, per un motivo molto semplice: la Cina dei primi decenni del secolo era un Paese essenzialmente rurale; nessuna traccia del «proletariato marxista». Quasi cento anni dopo circa ventimila guerriglieri sono ancora in marcia lungo la costa orientale dell’India. Kalashnikov e vecchie carabine, bandiere con falce e martello e berretti con la stella rossa: il movimento attraversa il Bengala occidentale, l’Orissa (dove sono stati rapiti Paolo Bosusco e Claudio Colangelo), il Chhattisgarh, il Jharkhand e un lembo del Maharashtra (territorio enorme che sbocca sulla costa occidentale, a Mumbai). Secondo le statistiche del ministero degli Interni, sul totale di 626 distretti, circa 223 sono toccati dai maoisti e in 90 di questi la minaccia è considerata «consistente».
È una storia che comincia nel 1967. L’anno prima Mao aveva lanciato la Rivoluzione culturale, scuotendo il corso del comunismo cinese, di partiti e gruppi marxisti nel mondo. Un sussulto si avvertì anche nel Paese del Mahatma Gandhi. Anche qui prevalse l’irrefrenabile impulso alla scissione: il Partito comunista indiano si spezzò in due tronconi e i maoisti, che si consideravano i veri custodi del marxismo-leninismo rivoluzionario, presero la loro strada. O meglio la formazione dei naxaliti, nata nel villaggio di Naxalbari, nel Bengala occidentale, imboccò la via delle foreste, delle armi, degli attentati. In altre zone del Paese, invece, i seguaci del «Libretto rosso» iniziarono un percorso «antagonista», ma restando sempre nella legalità . L’esempio più evidente è quello del Kerala, lo Stato del Sud, oggi conosciuto da tutti per la vicenda dei due marò detenuti nel carcere di Trivandrum con l’accusa di aver ucciso due pescatori. I maoisti del Kerala, in coalizione con altri partiti marxisti, hanno vinto le elezioni per diverse tornate (fin dal 1957) e oggi contendono la guida del governo al leader del Partito del Congresso, Oommen Chandy. I naxaliti, invece, nel 1967, come nel 2012, erano e restano bollati con il marchio di terroristi. 
Le ragioni del consenso 
Bisognerebbe però chiedersi come è possibile che un simile movimento paramilitare, sia pure tra crisi e sconfitte, possa ancora tenere in apprensione l’India moderna, tanto che il primo ministro Manmohan Singh lo considera «la minaccia interna più grave per la sicurezza». 
Di solito, in questi casi si chiama in causa il concetto multiuso del «disagio sociale», per supplire alla mancanza di dati più stringenti. Ma stavolta qualche numero c’è. Nei giorni scorsi il quotidiano The Hindu ha pubblicato in prima pagina una tabellina molto semplice, da cui si capisce quanto sia ancora enorme la distanza tra le megalopoli e le realtà  rurali. In città  il 92,7% delle famiglie ha la luce in casa e l’82% il bagno. In campagna solo un’abitazione su due conosce i piaceri dell’elettricità  e, soltanto il 30% prevede la toilette (per il restante 70% ci sono gli spazi aperti, condivisi con gli animali). E si potrebbe andare avanti con la televisione, la cucina, la moto e l’automobile. Due Indie opposte, ma contemporanee, secondo la regola aurea del Paese. Ebbene c’è da stupirsi se i maoisti-naxaliti sguazzino in alcune delle aree più arretrate? Se le loro promesse di riscatto, di «liberazione dallo sfruttamento», non lascino indifferenti molti dei contadini dimenticati da tutti? Certo, bisogna anche dire con chiarezza che questi guerriglieri sono anche dei terroristi, che hanno ammazzato quasi 6 mila civili negli ultimi vent’anni. Che si finanziano vendendo oppio, che sono sospettati di ricevere fondi sottobanco dai servizi segreti cinesi, che uno dei loro leader, Shabhasachi Panda, lo stesso dell’ultimatum sugli italiani, è accusato «di stupri e atrocità » dal forum tribale delle donne di Gajapati (Stato di Orissa).
Ma, a questo punto, è evidente che saranno decisive le risposte che arriveranno dall’India dei telefonini, di Internet, oltre che delle lampadine e della carta igienica a portata di mano. Il governo Singh ha lanciato nel gennaio del 2009 una gigantesca operazione di polizia, chiamata «Green hunt», una caccia al terrorista condotta da circa 70 mila militari. Gli attentati e i sequestri, però non sono diminuiti. Segno che, forse, come cominciano a scrivere gli stessi giornali indiani, è il momento di fare qualcosa in più. Per esempio gestire con più equilibrio gli appetiti dei gruppi industriali (Tata in testa), pronti a costruire dighe, sbancare territori, chiudere e aprire miniere. A Orissa è ancora viva la memoria del rapimento di un funzionario dello Stato, nel febbraio 2011, risolto dopo una lunga trattativa gestita dal «Chief minister» locale. Ora i maoisti-naxaliti rilanciano, e per la prima volta, sulla pelle di due stranieri.

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