Nuove costruzioni teoriche per il «post-postmoderno»
Era prevedibile, e forse inevitabile, che a tornare a discettare del postmoderno e del suo tramonto fossero i teorici dell’architettura, fiancheggiati anche stavolta dai filosofi: da loro, se ci si ricorda, tutto era cominciato; o meglio, da alcuni progetti esemplari e da un cospicuo dibattito sulle nuove estetiche urbane (da Robert Venturi, Imparando da Las Vegas, a Charles Jenks, The language of Post-modern Architecture fino al Paolo Portoghesi di Postmoderno. L’architettura nella società postindustriale) il confronto aveva preso l’abbrivio, contaminato rapidamente gli altri campi del sapere.
Ad attestare la persistenza di questa linea – e a ribadire la presenza, per una volta tutt’altro che subalterna, degli studiosi italiani tra i protagonisti della disputa sul postmoderno (dall’alba al tramonto, verrebbe da dire) – è stato, recentemente, il saggio di Marco Assennato, Linee di fuga. Architettura, teoria, politica, da poco pubblicato da :duepunti: filosofo di formazione, il giovane studioso recupera dagli scritti di uno storico dell’architettura e militante del Pci come Manfredo Tafuri una eredità teorica della modernità ancora monetizzabile, e spendibile in nuova critica e nuova dialettica, nell’epoca che verrebbe dopo il postmoderno. Ma già da un pezzo, del resto, drappelli agguerriti di filosofi sono alacremente all’opera per edificare una nuova costruzione teorica che renda abitabile il dopo-postmoderno.
Sarebbe improvvido formulare giudizi a lavori in corso, né ci interessa farlo in questa sede; tuttavia non si può non registrare come la formula new realism, coniata a indicare polemicamente il superamento di un’epoca osteggiata in passato anche ingaggiando estenuanti dispute nominalistiche, appaia paradossale e piuttosto buffa (ma «quando il conto presentato dal nominalismo inizia a farsi troppo alto, chi chiamare a saldarlo se non il vecchio ma sempre servizievole realismo?», ha osservato argutamente Daniele Giglioli); ovvero che slogan come «fine della ricreazione», per richiamare all’ordine gli svagati postmodernisti, risuonino di quell’autoritarismo e di quel paternalismo che proprio le declinazioni più radicali e libertarie della cultura postmoderna avevano avversato.
Ad ogni modo, l’inaspettata ripresa del dibattito sul postmoderno, o meglio della sua presunta fine da salutare con rutilanti celebrazioni, potrebbe risultare tutt’altro che oziosa: addirittura propiziare una riapertura della questione anche nel campo della critica letteraria italiana, ambito rimasto per lo più indifferente al tema. Di certo sarebbe auspicabile, se non altro per provare a colmare un deficit di elaborazione stavolta tutta italiano, se è vero che oltreconfine, tra i letterati e gli italianisti, il postmoderno letterario sta conoscendo una rinnovata e feconda attenzione (della fine del 2009 è Postmodern impegno, a cura di Antonello e Mussgnug; a giugno di quest’anno è in programma a Coimbra un congresso internazionale su postmoderno e postcolonialismo, giusto per fare due esempi).
Per registrare i ritardi della critica e della storiografia letteraria di casa nostra, basterebbe una rapida ricognizione bibliografica: in Raccontare il postmoderno, una delle prime sintesi critiche pubblicate di qua dalle Alpi, ormai quindici anni or sono, Remo Ceserani doveva diffondersi nel dare conto di quelle che chiamava «esperienze di refrattarietà » (e che spesso sono state piuttosto manifestazioni di insofferenza plateale o di combattiva ostilità ); e se è stata sintomatica, nel 2002, l’indifferenza pressoché unanime, fatte salve poche eccezioni, che accolse in Italia la pubblicazione della dettagliatissima ricostruzione critica sul postmoderno nazionale di Monica Jansen, Il dibattito sul postmoderno in Italia. In bilico tra dialettica e ambiguità , forse fa ancora più specie non ritrovare citata l’italianista olandese nemmeno tra gli apparati della comunque esigua bibliografia sul postmoderno letterario italiano degli anni successivi (bibliografia che, anche risalendo agli anni precedenti, non conta neanche una decina di studi sistematici in trent’anni).
Ma, allargando lo sguardo, anche la lunga stasi della teoria letteraria italiana andrebbe letta come un sintomo rivelatore di questa ostinata «refrattarietà »: decostruzionismo, post-strutturalismo, studi culturali hanno ricevuto pessima accoglienza nei dipartimenti di italianistica delle università italiane, e saggi di grande rilevanza come quelli di Linda Hutcheon non sono mai stati tradotti, mentre il Postmoderno di Fredric Jameson ha avuto un’edizione italiana solo nel 2007. Una faticosa ed estenuante elaborazione del lutto per la morte dell’avanguardia e di uno storicismo teleologico che concepiva il moderno (una certa idea del moderno) quale unica incubazione possibile della palingenesi rivoluzionaria, insomma, ha condizionato e di fatto soffocato il discorso sul postmoderno letterario italiano sin dal suo nascere, assimilando qualsiasi apertura verso le estetiche postmoderne a una benevola condiscendenza al riflusso, al disimpegno, addirittura alla restaurazione reagan-thatcheriana: solo ostinarsi a essere absolument moderne o tutt’al più intonare epicedi per il bel tempo che fu era prerogativa di militanza, tra i letterati. Quanto ai testi canonici, l’avvento del postmoderno letterario italiano sarebbe stato sancito dalla pubblicazione (e dal successo internazionale) del Nome della rosa di Eco o al più anticipato di un anno dal Calvino metanarrativo di Una notte d’inverno un viaggiatore.
Tuttavia, proprio nelle Postille al suo bestseller, Eco invitava ad andare a rileggere i resoconti della discussione sul romanzo sperimentale promossa dal Gruppo 63 (l’anno in cui vennero pubblicati quei documenti è il lontano 1966), per provare a ragionare su una genealogia meno scontata del postmoderno letterario nazionale. Assecondare una ipotesi del genere, individuando nei paradossi di una «neo» avanguardia consapevole della fine dell’avanguardia le prime avvisaglie di quello che un quindicennio dopo si sarebbe chiamato postmoderno, consentirebbe finalmente di ridisegnare la mappa della produzione letteraria italiana dell’ultimo mezzo secolo, evitando di costringerla dentro periodizzazioni forzose e schematiche e restituendo una rilevanza diversa ad alcuni dei più preziosi documenti letterari del nostro secondo Novecento (una delle proposte più convincenti in questo senso è quella elaborata da Marco Belpoliti in Settanta): da Calvino, che nello Sguardo dell’archeologo (1972) gettava le basi per un antistoricismo tutt’altro che regressivo e individuava in Giorgio Manganelli il suo più geniale interprete, a Gianni Celati, il quale dopo aver licenziato a metà di quel decennio uno dei testi teorici più densi di quegli anni, Finzioni occidentali (prima vera elaborazione critica nella quale riconoscere un postmoderno italiano dotato di caratteri propri), disambientava Alice nel Dams occupato e avviava una ricognizione narrativa «di superficie» di straordinario valore. Per non dire dei pastiche arbasiniani.
E chissà che finalmente non si ponderi adeguatamente il portato politico e resistenziale di molti di quei testi, da Palomar a Encomio del tiranno: del resto, se solo adesso, dopo un quarantennio, stiamo comprendendo l’entità della svolta del capitalismo occidentale dopo la fine di Bretton-Woods, ci si potrà pur concedere un supplemento di indagine per smentire che gli scrittori italiani «post-realist» fossero tutti al soldo della reazione internazionale.
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