Nicolas Fargues, la scoperta della discontinuità 

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Porgere appunto, non imporre. È una cosa a cui non voglio abituarmi, per furbizia più che altro, perché sono convinto che è un modo di scrivere e di raccontare che ha, forse non i giorni, ma gli anni contati. O meglio li avrà  se in futuro ci sarà  ancora bisogno di narrazioni scritte, ed è la prima cosa che mi è venuta in mente leggendo Vedrai, dello scrittore francese Nicolas Fargues (nottetempo, pp. 187, euro 14, con l’ottima traduzione di Benedetta Torrani che si sforza di rendere il tono rabbioso e la voce strozzata).
Difatti è un romanzo «odierno». Lo stile impetuoso e bilioso ha la sua giustificazione nella vicenda, vale a dire l’esame di coscienza, il dipanarsi di considerazioni dolorose e di inevitabili rimorsi che un padre parigino, quarantenne o giù di lì, separato va da sé, si ritrova giocoforza a fare alla morte violenta del figlio dodicenne, una «morte stupida», e già  non c’è pena più grande per un genitore che sopravvivere al proprio figlio. E poi via via lo svelamento delle drammatiche circostanze in cui quella morte è avvenuta, forse addirittura in seguito a un gioco autolesionista di moda fra i giovani d’oggi.
Così all’inizio dell’estate lui si ritrova da un giorno all’altro con un dolore talmente grande che non può esserci sollievo, nello stato in cui non ci importa più niente, indifferenti a tutto, disposti ad affrontare la vita col sole che splende «oltraggioso», disposti anche a fare quello che non s’è mai fatto, cioè da «intralcio al mondo organizzato degli uomini». Considerazioni dolorose dunque che vengono alla coscienza man mano che avanza la constatazione di come il ripetersi degli errori sembri inevitabile, di quanto i meccanismi di incomprensione tra genitori e figli si ripetano sempre uguali, generazione dopo generazione c’è sempre un padre palloso che rincorre il figlio con quella specializzazione d’egoismo chiamata amore. 
Sembrerebbe esserci una continuità  insomma, qualcosa di incomprensibile e angusto al quale ci si può comunque aggrappare, fra lavori, divorzi, occasioni mancate e nuovi incontri. Invece c’è qualcos’altro, quell’istinto segreto all’autodistruzione che si respira nell’aria e che disperatamente facciamo di tutto per non sentire. Perché, se non c’è più futuro dev’esserci stata una cesura da qualche parte, ed è l’inevitabile e pervadente nichilismo a ricordarci che è la vita oggi ad esser troppo malazzata, e solo la morte si può intravedere, circuire o cantare, specie se si è adolescenti.
Tutto quello che prova o pensa il protagonista sembra far parte di un pensiero unico, tentacolare, frutto della connessione reciproca a cui diamo il nome di realtà , o continuità , per fissazione per lo più. Come in un telefilm annoso che non ha ancora smesso, che proprio non riesce ad arrivare alla fine. Niente in questo senso può dirsi delinquenziale, neppure raggiungere la periferia col desiderio di stordirsi di droga, anzi il pusher, per vincere il suo dolore lo invita (assai miracolosamente c’è da dire) a consultare un suo parente a Ouagadougou, in Bukina Faso, qualcosa tipo uno stregone. Quando lui ci va si tratta di un viaggio affrettato perché sa già  che tornerà , sa già  che la magia antica fallirà , sa già  tutto, tranne forse che non esiste più una vera continuità  con «l’ordine semplice della natura di cui non ci si rende conto». 
È una sorta di scoperta della discontinuità  prodotta sia dalla nostra idea di progresso, sia dal fatto che il progresso cosiddetto è proprio un fatto reale che ha profondamente mutato la nostra vita e la nostra mente, e solo da questa presa di coscienza di essere molto cambiati, «altri» rispetto a un prima anche recente, possiamo ritrovare stimoli o ragioni per andare avanti, possiamo, come continuiamo a dire senza crederci quasi più per niente ormai, inventare un futuro.


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