Nelle città  fantasma inghiottite dall’onda Un anno dopo è ancora un deserto

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MINAMISANRIKU (Giappone) — Fu oggi, e sarà  per sempre. Lo sanno le strade delle cittadine battute dallo tsunami, ore 14.46 dell’11 marzo 2011: non portano più a nulla, anche adesso che l’asfalto è netto e liscio mentre lambisce mezze piramidi di sfasciumi, scacchiere di pavimenti senza case, cubi di cemento miracolati e vuoti. I morti sono 15.846, 3.317 i dispersi, 6.011 i feriti secondo i conti di un mese fa, e queste sono le loro strade. Le abitazioni intatte restano sulle pendici di colline bersagliate dal nevischio e affacciate su fiordi dove l’onda s’è imbucata prendendo slancio. Altre case, case nuove, non ce ne sono. Fumio Hatakeyama, tuta da meccanico, è il capo villaggio di un agglomerato che accoglie 180 famiglie. Container, non case. «Mio figlio s’è salvato legandosi a un tubo sul tetto della palazzina del municipio. Siamo 561 persone sempre col sorriso addosso: abbiamo sofferto tutti le stesse cose. Così ci facciamo coraggio». Ce lo dice credendoci.
Minamisanriku conta quasi 900 fra vittime e scomparsi, e il muro d’acqua di 11 metri ha lasciato, un anno dopo, un deserto che non si ripopola. I 200 miliardi d’euro stanziati da Tokyo complessivamente per il sisma in quattro tornate non si sono tradotti — ancora — nella ricostruzione. La catastrofe nucleare di Fukushima, seguita all’uno-due terremoto-tsunami, si mangia l’attenzione del Giappone, dove oggi una serie di manifestazioni contro l’atomo affiancheranno i memoriali per il sisma. Qualcuno ci prova: un parallelepipedo piazzato sul «ground zero» di Minamisanriku è la drogheria Omoriya. Ha da 40 a 85 clienti al giorno ma sono più curiosi di passaggio e turisti del disastro. A monte, tra i 30 negozi prefabbricati del Sun Sun Shopping Village, allestito dal governo, il pescivendolo Yokoo Endo ha un contratto di 5 anni che sembra una scommessa e la profumiera Yuki Sato spera nella «voglia di normalità  delle donne che vengono a cercarsi una crema per il viso».
È il sindaco Jin Sato, stesso cognome come succede nelle comunità  ristrette, a preoccuparsi, e non per la denuncia da parte dei parenti dei funzionari comunali morti «perché lui gli aveva ordinato di non scappare». Lo inquieta altro: «Avevamo un piano in 10 anni, ma se Kobe dopo il suo terremoto si è ripresa ufficialmente in 17 anni, noi in 10 probabilmente non ce la faremo», racconta al Corriere nel suo ufficio, ennesimo container issato sopra un ex campo sportivo. «Il problema non è che la gente lascerà  Minamisanriku. È che se ne sta già  andando: il calo della popolazione è dell’8,9%, 2.200 persone in meno. L’85% delle attività  produttive è stato azzerato. Senza lavoro vanno via, ma se la gente parte chi lavora? Un circolo vizioso». Due case perse in due tsunami, 1960 e 2011, Sato sa che occorre rischiare: «Le abitazioni in alto, però non possiamo costruire barriere. Ci salvano pesca e turismo. La barriera farebbe fuori anche quelli. E invece a ottobre salmone e itticoltura erano al 90% dell’anno prima e la pesca nell’insieme al 60%. Ci riprendiamo…».
Qui il Giappone campa di mare. I danni all’industria della pesca sono sui 13 miliardi di euro e ne sono arrivati dal governo meno di 9. Delle 29 mila barche e navi danneggiate, ne sono state rimesse in sesto 7.300. La «Kyotokumaru 18» non è tra queste. Torreggiano a Kesennuma, sostenuti da pali di ferro rugginoso, i suoi 60 metri. Di fatto è già  un monumento, con un cartello che raccomanda ai visitatori di «rivolgere un pensiero» a chi non c’è più e un altarino completo di statuetta di pietra e offerte. Ma non tutti sono d’accordo: non chi la considera una zavorra emotiva troppo forte in un posto dove il mercato del pesce s’affanna nella penuria di attrezzature. A Rikuzentakata, altra cittadina martire, il totem è il celebre pino solitario. Bendato, venerato, sostenuto, sta tuttavia morendo. Anche qui statua e offerte. E un ex voto, e troupe tv, e un orizzonte di niente. Più su, in cima alla valle percorsa dal mare un anno fa, hanno rimesso in piedi l’asilo i cui bambini furono spinti sulla collina da un pompiere preveggente e salvifico. Akinari Ota era corso avanti e indietro dal suo ristorante «Waiwai», per recuperare cellulare e incasso, incontrando moglie e figli a casa, al riparo. Aveva ritrovato un suo menu e l’insegna mezzo chilometro da dove stava il «Waiwai». L’ha riaperto, sulla collina. La cucina in un container, tavoli, una saletta per famiglie o feste, libri, cd, i poster della nazionale di calcio col c.t. Zaccheroni, tazze di amazake caldo a 100 yen, un euro. «È più di una tavola calda: è un punto di riferimento per la comunità ». Ota ricorda con disappunto «i soldati della Forza nazionale di Difesa tracciare le strade nelle macerie senza curarsi del resto». Col suo blog e con i suoi tweet, lui riuscì a farsi spedire 16 mila paia di scarpe che ha distribuito «in 77 località , ne raggiungevo anche 4 al giorno». Non lontano le autorità  hanno messo a disposizione un terreno. «Bisogna farne un centro commerciale. Ho chiesto altri 5 milioni di yen alla banca: il centro serve, ci aprirò un altro locale. Per restare la gente vuole una vita stabile, invece ci si divide tra chi pensa a benefici immediati e chi ha una visione a lungo termine».
I bambini e i ragazzi quella visione ce l’hanno. Tomoko Tsuda, coordinatrice di Save the Children: «Ricordo una quindicenne. Aveva perso tutto: casa e famiglia. Dopo un po’ è diventata animatrice delle nostre attività  per aiutare i piccoli a elaborare il trauma attraverso il gioco. I giovanissimi non sono focalizzati sulla perdita, ma sulla rinascita», spiega al Corriere. Lo conferma lo psicologo Junya Kubo, nel suo studio all’università  di Miyagi, a Sendai: «Lo tsunami ha lasciato i sopravvissuti con una grave sindrome post-traumatica. L’80% si riprenderà  in 2-3 anni, ma ne possono servire anche 20. Quel che conta è formare o ri-formare una comunità , soprattutto per gli anziani. E come per chi uscì dai Lager, il sentirsi in colpa per essere scampati è normale. Nulla di cui vergognarsi». Il professor Kubo intanto si prepara. I libri sui ripiani di ferro sono fermati da spago rosa. Alla prossima scossa non cadranno più. Sapere certe cose è una salvezza e, insieme, una condanna.


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