La nostalgia globale

by Editore | 28 Marzo 2012 6:25

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È il vero male del secolo, la nuova patologia diffusa dalla globalizzazione? Ha un nome antico: “Nostalgia di casa”. Nell’Ottocento, all’alba delle migrazioni mondiali legate alla prima rivoluzione industriale, era un termine medico, usato nelle riviste scientifiche come descrizione di una vera malattia. Oggi viviamo nell’epoca delle migrazioni “2.0”, un salto di civiltà  ci ha trasportati in un universo senza frontiere e senza distanze. Mai prima d’ora l’umanità  ha avuto tanta facilità  a spostarsi e a comunicare. Emigranti poveri in fuga dal sottosviluppo o dalle guerre; espatriati di professione; “cervelli” che si spostano all’estero in cerca di migliori opportunità  scientifiche. La tipologia è vasta, ma si scopre che non siamo così facilmente sradicabili, esportabili, adattabili. I costi psicologici del nomadismo globale sono in aumento. I numeri delle nuove migrazioni sono impressionanti, fantastici o spaventosi, di certo senza precedenti nella storia. I dati della Organizzazione internazionale per le migrazioni rilevano solo per gli Stati Uniti un flusso in ingresso superiore a un milione di nuovi immigrati ogni anno. A livello planetario il numero totale degli emigrati viene censito in 215 milioni di persone; con una crescita di 25 milioni nell’ultimo quindicennio. E questa cifra non include le migrazioni interne, che possono comportare ugualmente spostamenti su grandi distanze, esperienze di sradicamento estremo. Basti pensare ai 10 milioni di contadini cinesi che ogni anno abbandonano le campagne e si riversano nelle metropoli costiere come Pechino o Shanghai. Anche il lavoratore americano licenziato a Detroit che si sposta per cercare un’occupazione in Arizona, fa un salto di qualche migliaio di chilometri, a grande distanza da dov’è cresciuto e da dove vivono i suoi affetti. Gli immigrati “interni” sono 740 milioni. 
In totale, in questo istante un miliardo di abitanti del pianeta vivono l’esperienza dell’emigrazione: un essere umano su sette. E diventeremo molto più numerosi, ben presto. L’ultimo sondaggio Gallup World Poll rivela infatti che sono un miliardo e cento milioni coloro che «vogliono spostarsi temporaneamente all’estero nella speranza di trovare un lavoro migliore». Altre 630 milioni di persone vorrebbero «trasferirsi all’estero in modo permanente». Un terzo dell’umanità  si sente psicologicamente sul piede di partenza, disponibile o costretto, attirato o rassegnato a doversi rifare una vita “altrove”. Ai due estremi del ventaglio delle migrazioni, ci sono disperazione e libertà . Le diseguaglianze crescenti aumentano la pressione per abbandonare i luoghi più miseri e inospitali. Al tempo stesso è diventato più facile andarsene, e viviamo in una cultura che esalta la mobilità  come un valore positivo. Il giovane italiano neolaureato, che ha assaggiato l’esperienza dell’estero con un programma Erasmus di studio in una facoltà  straniera, sente dire che «i migliori se ne vanno», vede talenti che si affermano dopo avere spiccato il volo verso gli Stati Uniti. 
Ma è proprio vero che il XXI secolo ci ha reso tutti cittadini del mondo, cosmopoliti e flessibili? Una studiosa americana delle migrazioni, Susan Matt della Weber State University, dimostra che è una forzatura. «Il cosmopolitismo – spiega la Matt – e cioè l’idea che gli individui possono e debbono sentirsi a casa propria in ogni angolo del mondo, risale nientemeno che all’Illuminismo. Solo ora però è diventata senso comune, valore di massa, come un ingrediente costitutivo dell’economia globale. Tuttavia dopo un decennio di ricerche sulle esperienze e le emozioni degli immigrati, ho scoperto che molti di coloro che lasciano casa in cerca di un futuro migliore finiscono per subìre uno spaesamento dagli effetti depressivi. Pochi ne parlano apertamente». Gli effetti collaterali possono variare a seconda dello status socio-professionale: non vivono la stessa vita il messicano immigrato a Los Angeles per lavorare come cameriere o giardiniere, e il giovane matematico italiano che ha vinto una cattedra a Berkeley. La Matt però ha scoperto che la sindrome nostalgica è interclassista, colpisce anche chi vive in condizioni migliori. «Skype, Facebook, le email e i cellulari traggono in inganno – sostiene la ricercatrice – perché danno l’illusione che migrare sia diventato indolore, che le conseguenze siano irrilevanti perché ormai basta un clic sulla tastiera per cancellare le distanze». 
Le tecnologie hanno aiutato anche i più poveri. Per l’espatriato di élite, già  trent’anni fa viaggiare era facile. Oggi con le compagnie aeree lowcost il volo intercontinentale è accessibile a masse sempre più vaste. La videotelefonata internazionale gratuita con Skype è nelle case di tutti, compresi i latinos che arrivano in California per lavorare negli aranceti e nella raccolta dei pomodori. La velocità  di diffusione “democratica” di queste tecnologie è strepitosa. Lo documenta una ricerca della fondazione Carnegie: ancora nel 2002 solo il 28% degli immigrati qui negli Stati Uniti telefonava ai familiari almeno una volta alla settimana; oggi oltre il 66%. E tuttavia uno studio pubblicato nella rivista scientifica Archives of General Psychiatry dimostra che i messicani immigrati negli Usa hanno tassi di depressione superiori del 40% ai loro familiari rimasti in Messico. «Una imponente mole di ricerche – conferma Susan Matt – documenta lo stesso fenomeno in altre comunità  etniche. Tutti i nuovi arrivati in America soffrono di alte percentuali di depressione e sindromi da stress di acculturazione».
Nonostante il maggiore benessere che spesso premia coloro che imboccano la strada dell’emigrazione, le percentuali di ritorno sono più elevate di quanto si creda. «Dal 20% al 40% di tutti gli immigrati negli Stati Uniti, finiscono per ritornare al paese d’origine». Tutto ciò non stupiva affatto gli psicologi dell’Ottocento. Nell’epoca dei pionieri, dopo la conquista del Far West e la febbre dell’oro (il primo boom d’immigrazione globale verso la California nel 1848), i medici studiavano sistematicamente le “malattie da emigranti”, e il termine “nostalgia” ricorreva nel vocabolario clinico, come una sindrome precisa e talvolta fatale. Un articolo del 1887 sull’Evening Bulletin di San Francisco descriveva in modo dettagliato e struggente gli ultimi giorni di vita di un sacerdote irlandese, il reverendo McHale, «ucciso dai dolori della nostalgia di casa». Le riviste mediche americane di quell’epoca erano piene di una casistica simile. Parlare di nostalgia non era un tabù, nonostante che l’America fosse stata costruita su una visione gloriosa e positiva della mobilità , dello spirito di avventura, della voglia di conquista di nuovi territori. 
«Oggi invece – osserva Susan Matt – le discussioni esplicite di questo fenomeno sono rare, anche nella comunità  scientifica. Sembra quasi che le emozioni e i danni affettivi dell’emigrare siano un ostacolo imbarazzante, sulla strada del progresso e della prosperità  individuale. L’idea che sia facile sentirsi a casa propria in ogni angolo del pianeta, deriva da una visione dell’umanità  che celebra l’individuo solitario, mobile, facilmente separabile dalla sua famiglia, dalle sue radici, dal suo passato». In quanto all’illusione che le tecnologie abbiano abbattuto frontiere e distanze, la psicologa messicana Maria Elena Rivera ha raggiunto la conclusione opposta: molti suoi pazienti soffrono ancora più acutamente la lontananza da casa, dopo avere “assaggiato” l’atmosfera di una cena tra familiari e amici… osservata a mille chilometri di distanza sullo schermo di un computer o di un’iPhone via Skype.

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