Narrazioni a uso e consumo dello status quo

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Vladimiro Giacché inizia Titanic Europa. La crisi che non ci hanno raccontato (Aliberti, pp. 176, euro 14) in modo fulminante, citando i Blues Brothers: la scena dove Jake (John Belushi) incontra la ex fidanzata da lui lasciata sola all’altare, minacciosamente armata di fucile d’assalto M16, intenzionata ad una resa dei conti finali. Jake inanella una serie di scuse palesemente infondate, una più dell’altra. Così, ci dice Giacché, è per la lettura delle cause della crisi che ci è stata rifilata in questi anni. Non è uno dei pregi minori di questo libro agile, che si legge d’un fiato per la scrittura limpida e la chiarezza delle argomentazioni, il fatto di smontare la narrazione dominante. Chi è alla ricerca di una descrizione aggiornata dell’evoluzione della crisi, dalla prima fase centrata sugli Stati Uniti, alle risposte di politica economica che hanno spostato il debito dai soggetti privati allo Stato, al presente incubo europeo, trova qui il libro esemplare. 
Giacché è intellettuale dalle molte vite: filosofo hegeliano, analista finanziario, curatore di una silloge di scritti di Marx sulla crisi. Quando scrive di economia, crisi e Marx sa insomma di cosa parla. Essendo spiritoso, siamo certi che apprezzerà , nello spirito dell’altro fratello Blues, Elwood, che lo si incoraggi con una critica costruttiva. All’inizio del volume Giacché snocciola alcuni luoghi comuni dei marxisti. Non è la crisi finanziaria ad avere contagiato la crisi reale, è vero semmai il contrario: credo, per mio conto, che le due dimensioni siano inseparabili. Il trentennio che segue il grande sviluppo postbellico è caratterizzato da una crescita asfittica: credo invece che si sia trattato di una particolare forma dell’accumulazione capitalistica, non priva di aspetti dinamici. Ciò che spiega la debolezza dello sviluppo capitalistico è la caduta del saggio del profitto nella formulazione originale marxiana: credo invece che la caduta del saggio del profitto nella sua versione tradizionale non tenga, e vada recuperata come meta-teoria delle crisi. Questa linea di lettura, peraltro, ha i suoi meriti. Salva Giacché dal cadere nell’idea keynesiano-ricardiano che la crisi sia dovuta al sottoconsumo. Analogamente questa sua linea di lettura gli consente di dire forte e chiaro che la finanza non è la malattia ma il sintomo. Al passivo, anche che Giacché nelle pagine iniziali sottoscriva che l’esplosione del debito «sovrano» sia un fenomeno patologico.
Questi limiti svaniscono come neve al sole dal secondo capitolo in poi. Il problema, dice Giacché, non è il debito pubblico, ma la trasformazione del debito privato in debito pubblico, in conseguenza della crisi. Negli anni precedenti la crisi ad esplodere non fu affatto l’indebitamento delle imprese statunitensi a esplodere, erano anzi creditrici nette, ma quello delle famiglie. Giacché offre anche una ricostruzione convincente del «successo catastrofico» dell’euro, che eliminò il rischio di cambio e abbattè per un decennio i tassi di interesse. Così la moneta unica confermava i paesi nelle loro specializzazioni produttive, e consentiva di finanziare gli squilibri delle partite correnti.
Giacché ha il coraggio di scendere sul terreno infido della politica economica. Propone la Bce come «prestatore di ultima istanza» che finanzia illimitatamente i disavanzi degli stati stampando nuova moneta. Cita poi il Keynes che sostiene che l’austerità  va bene nei periodi di espansione, non di recessione. Sostiene che il debito non si riduce risparmiando ma investendo: in infrastrutture (fisiche e non), in formazione, in ricerca, in settori chiave e in settori di interesse sociale, e così via. In altri termini, «socializzando» in profondità  le economie. Solo così si potrà  evitare il naufragio.
Il difetto dei keynesiani più radicali è che vedono in politiche del genere un nuovo equilibrio del capitalismo, un «buon» capitalismo, che può essere imposto dall’alto, cambiando i consiglieri del principe. Credo che una prospettiva del genere si apra soltanto con lotte dal basso, e con una ispirazione strategica che metta in questione il modo di produzione (come, cosa e quanto produrre). Penso anche che così si determinerebbe una situazione di «squilibrio», dalla quale si possa riproporre la sfida di una fuoriuscita dal capitalismo, uno sbocco politico che apra a nuove e diverse contraddizioni. Magari Giacché sarebbe d’accordo.


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