by Editore | 21 Marzo 2012 7:24
Dopo l’incidente che tre giorni fa ha contrapposto nuovamente l’Italia e l’isola di Malta sulle responsabilità in materia di soccorsi in alto mare, le parole pronunciate ieri dal capo dello Stato Giorgio Napolitano a conclusione dell’incontro con il presidente maltese George Abela sono un appello all’Unione europea affinché non lasci soli i Paesi di frontiera. Il richiamo di Napolitano però è anche finalizzato a ricordare che è sui diritti umani che si fonda quella politica comune europea: «Bisogna sempre non dimenticare – ha aggiunto il presidente italiano quasi a marcare la distanza con la politica maltese – che c’è una distinzione fondamentale tra l’immigrazione e l’asilo politico. Infatti quando sbarcano disperati e noi ci troviamo di fronte persone che hanno titolo a chiedere l’asilo, in questo caso bisogna fare accertamenti, rapidi, seri e anche severi. E non c’è dubbio – ha sottolineato – che bisogna dare lo status di rifugiato a chi ne ha titolo».
Solo sabato scorso, infatti, mentre le motovedette italiane soccorrevano un barcone partito dalla Libia, trovando tra i migranti cinque cadaveri a bordo, un’altra imbarcazione alla deriva con 74 somali veniva soccorsa a 40 miglia a sud di Lampedusa, in acque maltesi, da un motopesca francese con equipaggio tunisino. Avrebbero dovuto essere accompagnati al porto più vicino, a Malta, ma la Marina militare maltese che coordinava le operazioni aveva ordinato al motopesca di fare rotta su Lampedusa malgrado non l’isola italiana sia più considerata “porto sicuro” da quando nel settembre scorso alcuni reclusi danneggiarono il Centro di prima accoglienza. Ancora, quello stesso giorno la capitaneria di porto di Lampedusa è stata costretta a soccorrere un altro barcone con 114 profughi a bordo avvistati in acque maltesi ma senza alcun riscontro con le autorità de La Valletta.
Insomma, una situazione incandescente tra i due Paesi che andava in qualche modo raffreddata e gestita. Anche ieri però, come spesso accade, tra Napolitano e Abela le divergenze sembravano appianate. Il presidente maltese ha spiegato che con i suoi 400 mila abitanti Malta ha un livello di accoglienza minore rispetto all’Italia ma non ha negato di avere, riguardo ai soccorsi in mare, «un diverso punto di vista» dall’Italia. La politica di Malta, ha assicurato Abela, è ancora quella di accompagnare gli immigrati eventualmente raccolti nel Mediterraneo «nel porto più vicino», ma poi ha ammesso che «il problema è delicato» e ha assicurato che comunque il suo governo sta «cercando differenti modelli di respingimenti». Della questione ne parlerà , ha annunciato il presidente maltese, con il ministro degli esteri italiano Giulio Terzi di Santagata.
«Con Malta dobbiamo impegnarci in sede comunitaria», perché siamo «entrambi esposti» e non dobbiamo «rimbalzarci i problemi tra noi», è l’esortazione di Napolitano. Tra i due paesi occorre costruire, ha invitato il presidente, «un clima di matura fiducia reciproca», «ricercare intese durature per concordare i nostri confini e le rispettive responsabilità e intensificare così la nostra collaborazione». Insieme, è in sostanza la conclusione di Napolitano che ha salutato il presidente Abela con un brindisi, «dobbiamo essere fermi nel sollecitare una politica comune europea».
L’Europa, ha risposto ieri Stefano Manservisi, direttore generale affari interni della Commissione europea, presente a Roma per un dibattito, ha «fatto tutto quello che poteva fare» durante la stagione degli sbarchi che ha avuto il suo apice a metà dell’anno scorso. Di più l’Ue non poteva fare perché i governi nazionali «non hanno mai dato alle istituzioni europee i poteri per farlo». Manservisi ha anche ricordato che l’Europa ha già una visione comune e delle «regole» per gestire i flussi di migranti. Certo, ha aggiunto Manservisi, «non basta la solidarietà » e occorrerebbero «più regole comuni», ma l’Italia stessa «ha già recepito la direttiva europea sui rimpatri» (che peraltro privilegia i rimpatri volontari). Comunque, ha ricordato Manservisi, la regola europea è che non c’è alcun obbligo per i Paesi membri al «burden sharing», vale a dire la suddivisione degli oneri.
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