NANNI BALESTRINI
Può stupire che tra le tante facce di Nanni Balestrini quella meno esibita sia l’artista concettuale di talento che ha fatto mostre importanti e che Documenta – la manifestazione artistica che si tiene in giugno – ha invitato a Kassel per presentare un film. Parla in maniera sommessa, Balestrini. E a volte si ha l’impressione che in lui agisce una certa reticenza. Scrittore incline allo sperimentalismo. Grande organizzatore culturale. Oggi dirige Alfabeta2, mentre l’editore Bompiani ha da poco pubblicato una nuova edizione antologica del primo Alfabeta. «La rivista di allora durò una decina di anni. Il primo numero uscì nel 1979. Eravamo un gruppo di intellettuali di provenienza disparata. C’erano Umberto Eco, Maria Corti, Mario Spinella, Pier Aldo Rovatti, Antonio Porta, Francesco Leonetti. Volevamo riprendere il discorso della cultura che durante gli anni Settanta era sommerso o frantumato», ricorda Balestrini.
Non fu un decennio facile per la cultura.
«C’erano molte spinte emotive. Oltre che politiche. Io organizzai a Milano l’iniziativa di Area, nella quale avevo raccolto un certo numero di riviste – tra cui Re Nudo, Erba Voglio, Aut Aut – e piccoli editori per pubblicare dei libri. L’idea era di rafforzare un fronte editoriale che altrimenti sarebbe rimasto invisibile. Pubblicammo tra il ’76 e il ’77 circa 130 libri tra cui Eco, Arbasino, Fachinelli. Poi chiudemmo a causa dell’inasprirsi della repressione».
La repressione, che culminò con il 7 aprile 1979, fu la risposta alla lotta armata, al ribellismo, ai morti che cominciarono a insanguinare le strade.
«C’era un disegno repressivo più ampio, cominciato con la strage di piazza Fontana a Milano nel 1969. Ma lo spartiacque vero avvenne nel 1972 con la morte di Giangiacomo Feltrinelli. Ho cercato di raccontare tutto questo nel libro L’editore».
Quando dice “spartiacque” che cosa intende?
«Che dal Sessantotto fino alla morte di Feltrinelli ci fu una grande partecipazione positiva del movimento. Poi arrivarono le degenerazioni e con esse l’arretramento del movimento, il terrorismo e la repressione che coinvolse tutto e tutti, anche i luoghi di cultura».
Anche lei non ne uscì indenne.
«Evitai l’arresto rifugiandomi in Francia, dove rimasi per cinque anni. E poi venni completamente assolto da quelle accuse».
Di cosa l’accusavano?
«A me, come per altri intellettuali, l’accusa fu di essere responsabile diretto di tutto quello che di violento si era scatenato fino a quel momento e comprendeva anche l’assassinio di Aldo Moro. La verità è che la sola cosa che trovarono era il mio nome nell’agenda telefonica di Toni Negri, di cui ero amico».
Lei ha militato in Potere Operaio.
«Sì e poi per un po’ nell’Autonomia. Ma vedevo come un progetto fallimentare la contrapposizione allo Stato attraverso la lotta armata».
Capisco. Ma non le sembra che tutto l’arcipelago della sinistra extraparlamentare abbia brillato per miopia e velleità , favorendo una deriva autoritaria?
«Ufficialmente gli anni Settanta sono stati gli anni di piombo. Ma credo che non si possa ridurre quella stagione soltanto a questo aspetto».
Lei, come ha ricordato, pubblica nel 1972 il libro su Feltrinelli, di cui ricorre il quarantennale della morte. Perché sentì il bisogno di parlarne in modo così diffuso?
«Ero stato amico di Giangiacomo, oltre che dipendente. Entrai a lavorare in casa editrice all’inizio degli anni Sessanta e Feltrinelli mi apparve fin dall’inizio una persona dotata di un’immensa energia. In fondo la storia della casa editrice, fino a che rimase in vita, si è identificata con la sua vicenda personale. Sapeva infondere alle persone che lo circondavano una determinazione e un entusiasmo rari. Era un uomo culturalmente aperto. Ricordo che a un certo punto gli parlai del Gruppo 63, chiedendogli di appoggiarci e lui lo fece ben sapendo che da quell’avventura non sarebbe venuto fuori nessun successo editoriale. Gli piaceva che le cose e le situazioni si muovessero».
Non ha l’impressione che a un certo punto, per le sue posizioni politiche, perse il contatto con la realtà ?
«Visto adesso può sembrare. Ma lui entrò nella clandestinità perché temeva che il colpo di stato in Italia fosse imminente. E prese una strada senza ritorno».
Cosa pensa della sua morte? Ancora oggi non tutti i dubbi sono stati dissipati.
«Personalmente non vedo nessun mistero. Fu il frutto della sua imperizia. Feltrinelli era molto miope e sospetto che, sbagliando a posizionare il timer della bomba che avrebbe dovuto far saltare il traliccio, anticipò l’esplosione».
Una bomba di tutt’altro tipo fu quella che voi innescaste come Gruppo 63.
«Rompemmo con l’establishment culturale italiano».
Cioè con la cultura letteraria portata avanti da Bassani e Cassola.
«Li definimmo le Liale della letteratura».
Tra l’altro Bassani ricopriva un posto di rilievo proprio alla Feltrinelli.
«Dirigeva due collane: una di narrativa italiana e l’altra straniera. E a un certo punto ci fu uno scontro di generazione».
Tra chi?
«Poco prima di me, in casa editrice erano arrivati Valerio Riva e Nanni Filippini e avevano messo a punto una collana, Le Comete, che si contrapponeva a quella di Bassani. Alla fine Bassani, che aveva il suo ufficio a Roma, andò via e io presi il suo posto. Era il 1962».
E l’anno dopo nacque il Gruppo 63.
«Prima però c’era stata la rivista Il Verri».
Che dirigeva Luciano Anceschi.
«Fu il mio professore al liceo. A un certo punto mi chiese di aiutarlo nella redazione della rivista. Alla quale collaboravano Sanguineti, Barilli, Guglielmi, insomma parte di quel nucleo che poi darà vita al Gruppo 63».
Gli altri erano Arbasino, Giuliani, Pagliarani. Eravate intellettuali che agivano in ordine sparso. Cosa vi teneva assieme?
«A parte l’insofferenza verso un certo modo di scrivere, fu la musica a rivelarsi molto più interessante della letteratura e della pittura. Non è un caso che il primo convegno lo tenemmo a Palermo, dove tutti gli anni il barone Agnello, personaggio straordinario, organizzava un festival di musica nel quale passarono tutti i grandi da Stockhausen a Boulez. Ricordo che un giorno a pranzo con il barone c’erano Luigi Nono e il poeta Ungaretti. E Nono cominciò a parlarci dell’esistenza in Germania del Gruppo 47 e sapendo che io, come lui, ero interessato ai linguaggi della neoavanguardia, ci suggerì di pensare a qualcosa di analogo. Il barone Agnello si entusiasmò e disse che avrebbe volentieri tenuto a battesimo la nascita del Gruppo 63».
Che però non durò a lungo.
«In tutto cinque anni. E altrettanti convegni. Qualche romanzo e una voglia di liberare il paese dal bello scrivere».
A proposito di romanzi, i suoi mostrano un’attenzione forte all’esperienza sociale.
«Cominciamo col dire che non sono un narratore che inventa personaggi e storie. Amo raccontare le situazioni collettive».
Non ha immaginazione?
«Non ce l’ho nei contenuti, per cui la rivolgo alle forme. Feci qualcosa di sperimentale già con Tristano, un romanzo che uscì nel 1964, fatto con il collage di frasi prese altrove. Oggi lo chiamerebbero remix. Prima ancora, nel 1961, elaborai una poesia con il calcolatore elettronico. Ero attratto dall’attività combinatoria sia della macchina che della poesia».
Poi ha abolito la punteggiatura.
«Beh, questo si verificò con Sandokan. Mi importava restituire l’oralità del linguaggio, segnalare che c’era una voce narrante. E abolendo la punteggiatura nella sintassi creavo una specie di flusso continuo, un finto parlato».
Sandokan era un romanzo sulla camorra. Come le venne in mente di occuparsene?
«Ero stato in una piccola libreria di Aversa a presentare non ricordo più quale libro. E un giovanotto, la sera in pizzeria, mi parlò dei casalesi. Un gruppo criminale di cui agli inizi degli anni Novanta nessuno sapeva niente. Che prima aveva scalzato Cutolo e poi aveva preso tutto il potere della camorra. Mi parve una storia straordinaria».
Cosa pensa di Gomorra?
«Il libro, soprattutto nella seconda parte, è un reportage bellissimo. Ma non si discosta molto dal mio. Devo dire che mentre scrivevo Saviano mi aiutò con delle informazioni. Ma Sandokan, che poi era il nome del capo dei casalesi, non era una vera storia collettiva come quelle raccontate negli anni Settanta con Vogliamo tutto e Gli invisibili».
In qualche modo una storia collettiva la raccontò anche con I furiosi, uno dei primi romanzi sul tifo calcistico.
«E pensare che a me del calcio non piaceva nulla. Nei primi anni Novanta frequentavo a Milano un centro sociale dove, in uno stanzone adiacente, si riunivano le brigate rossonere. Rimasi sbalordito dai loro racconti in cui si mescolavano le trasferte avventurose, i rituali, i pestaggi, il linguaggio mirabolante. Mi portarono a vedere una partita. E fu un’esperienza terribile».
Cosa accadde?
«Ero in curva con tutti in piedi che saltavano. Il capo della brigata, voltando le spalle al campo, dirigeva il coro dei tifosi con due tamburi ai fianchi. Sono andato via prima della ripresa del gioco. Non reggevo la tensione. Però li ho amati e ho sentito che c’era in loro una grande e autentica passione».
Li ha amati come li amerebbe un intellettuale cui non frega niente del calcio.
«Ma anche per loro il calcio era un pretesto per stare assieme. I giornali sportivi mi attaccarono, dissero che difendendo quei disgraziati avallavo la loro sete di violenza. Io invece penso che ci sia un desiderio collettivo che spinge la gente a unirsi».
Si può stare insieme anche per far male agli altri.
«Gli stadi non sono un luogo di eccidi. E il calcio è una finta guerra nella quale due tifoserie fanno da coro».
C’è in lei come un bisogno di approvazione del vitalismo sociale. Anche nell’ultimo libro apparso, come del resto tutte le sue ristampe, da Derive Approdi, dedicato alla Milano di Pisapia, si nota questo slancio verso il collettivo.
«Ero lì quando Pisapia ha vinto e mi sembrava che con quella vittoria si chiudesse il ciclo del berlusconismo, di cui avevo raccontato nel 1994 la sua prima affermazione. Quanto al vitalismo ho l’impressione che la nostra storia sia stata segnata in maniera negativa dal capitalismo. Cosa deve fare un intellettuale quando si accorge delle enormi ingiustizie che esplodono nel nostro mondo? Oggi tutti parlano di crescita. Ma io mi domando: può il capitalismo continuare a crescere all’infinito?».
Proprio nel film che porterà a Documenta Kassel si parlerà di capitalismo.
«Il capitalismo sta distruggendo il mondo. E ho immaginato di raccontare questa distruzione con un centinaio di frammenti visivi: ci sono parti di un vecchio serial televisivo, Dallas, immagini della Borsa di Wall Street, le catastrofi provocate dall’uomo e la fame nel mondo».
Lei non ha mai dimenticato gli anni Settanta.
«Mi rendo conto di avere avuto la fortuna di vivere due per me meravigliose stagioni, quella della neoavanguardia letteraria degli anni ’60 e quella del movimento degli anni ’70, stagioni belle, giuste, entusiasmanti, che mi permettono di sopportare senza rassegnazione tutto lo squallore successivo».
Related Articles
Dalla Pozzi alla Rosselli Il senso lirico delle donne
Il Meridiano appena uscito dedicato ad Amelia, morta suicida nel 1996, è l’occasione per riscoprire i versi di autrici irregolari come lei. Cerca la verità della parola esponendosi a una vera e propria espropriazione. In bilico tra lingue e culture, musicista e poeta, fragile e nervosa, così saggia e così folle
L’espropriazione in nome della legge
Pamphlet. Dalle enclosures delle terre comuni alla conquista coloniale. Alle contemporanee forme di «capitalismo estrattivo». Un saggio di Ugo Mattei sulla proprietà privata
WISLAWA SZYMBORSKA Addio alla poetessa che vinse il Nobel con la grazia e l’ironia