Monti, non fare il Marchionne
Rigore, equità , crescita. Fra i tre lati del triangolo programmatico del governo Monti la parte del leone l’ha fatta finora il primo che s’è allungato a dismisura. Occorre riconoscere che al momento non si poteva fare altrimenti. Fra novembre e dicembre dello scorso anno i conti pubblici stavano correndo il serio rischio di precipitare in un avvitamento dall’esito infausto: un colpo di freno prepotente era indispensabile. Quanto al lato dell’equità si poteva fare di più e meglio: la minipatrimoniale sugli immobili rispetta poco il principio della progressività e in qualche caso appare eccessivamente punitiva per un settore economico di vitale importanza come l’agricoltura.
Resta, a questo punto, appeso in una sorta di limbo politico-legislativo il versante della crescita.
Certo il governo qualcosa ha fatto e sta ancora facendo. Ma il decreto sulle liberalizzazioni è stato troppo timido e irresoluto per far immaginare chissà quali frutti di rianimazione dell’economia. E altrettanto può dirsi per il provvedimento sulle semplificazioni burocratiche. Adesso Palazzo Chigi sembra voler puntare tutte le sue carte sulla riforma del mercato del lavoro. Iniziativa importante che, però, rischia di suscitare molte più speranze di quante si possano poi tradurre in benefici effetti sul corso dell’economia reale.
Davvero Monti e i suoi ministri si aspettano che una riscrittura, per esempio, del fatidico articolo 18 possa quasi miracolosamente spalancare le porte a un nuovo “boom” degli investimenti? C’è il forte pericolo che il governo stia sovrastimando la portata dei suoi interventi legislativi, sottostimando viceversa altre ragioni ancor più di fondo del brusco rallentamento dell’attività produttiva. Certo, non tutti gli imprenditori italiani stanno seguendo l’autolesionistico modello Marchionne che a una domanda calante sul mercato sa soltanto rispondere in termini di riduzione e non di aggiornamento dell’offerta. Ce ne sono anche alcuni che, guardando invece al modello Volkswagen, stanno facendo del loro meglio per inventarsi nuovi beni da esibire sui mercati. Ma pochi, troppo pochi.
Piaccia o no, ma l’attuale recessione come anche la scarsa crescita degli ultimi anni sono dovute a una perdita di competitività del paese che riguarda meno il salario dei lavoratori – per altro, inferiore a quello delle maggiori economie europee – e molto di più la mancata innovazione di prodotti e di processi produttivi per serrata degli investimenti da parte delle imprese. Sintomatico al riguardo è l’atteggiamento di Confindustria che sa avanzare richieste a 360 gradi: al governo, ai sindacati, alle banche. Ma nulla dice su quello che gli imprenditori intendono fare per dare il loro indispensabile contributo al rilancio dell’economia.
Se non prende di petto questo lato del problema, il governo Monti rischia di caricarsi responsabilità improprie per la mancata crescita. Sono anni, del resto, che in Italia si fa finta di credere che il nodo della competitività possa essere sciolto agendo soltanto sul puro costo del lavoro e trascurando l’aspetto essenziale della mancata capacità delle imprese di inventarsi maggior valore aggiunto con produzioni rinnovate. I risultati di questo strabismo sono sotto gli occhi di tutti. A cominciare da quella persistente debolezza dei consumi che è sicura concausa di bassa crescita
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