Mercato del lavoro, i paletti Cgil
Sarà certo un caso, ma il «confronto» sulla cosiddetta riforma del mercato del lavoro riprende solo dopo lo sciopero generale dei metalmeccanici. E la sensazione – forte – è che in Cisl, Uil, governo e Confindustria prevalga la tentazione di considerlo «tra parentesi», quasi un momento di sfogo purtroppo «dovuto», dopo il quale riprendere serenamente a parlar d’altro. La serie degli incontri – iniziata con il famoso «fare presto» assunto da questo esecutivo come marchio di fabbrica – era stata sospesa un paio di settimane fa per un motivo semplice: il governo non sapeva dove trovare i soldi per rendere concreta la prima delle «riforme» che compongono il pacchetto-lavoro: gli ammortizzatori sociali. È noto che il ministro Elsa Fornero ha in testa un modello alquanto spartano, rispetto all’attuale: mantenere soltanto la cassa integrazione ordinaria (durata massima 12 mesi, per le «crisi temporanee») e sostituire tutte le altre forme (cig straordinaria «per ristrutturazione», cig in deroga per i settori esclusi, mobilità fino a tre anni – per gli «over 50» dopo la chiusura dell’impresa) con un’ indennità di disoccupazione della durata massima di 12 mesi. Una perdita secca, per chi perde il lavoro «a tempo indeterminato», mal compensata dall’estensione di questa indennità anche ai precari, che attualmente non hanno alcun sostegno. «Mal compensata» perché, per questa estensione, il governo ha detto fin da subito di non avere fondi; né nell’immediato, né a regime. E risulta indigeribile per chiunque accettare che un «qualcosa di insufficiente» e «per pochi» sia sostituito dal «nulla per tutti». In queste due settimane, dunque, il governo dovrebbe aver trovato il modo di finanziare in modo stabile e continuativo questo nuovo ammortizzatore. Dando per scontato di poter far passare l’idea che minori tutele per «i garantiti» sia un gesto «equo», se accompagnato da un qualcosina per chi non ha protezioni. Resta fin qui indeterminato, comunque, l’ammontare mensile di questa – eventuale – indennità . E non è un dettaglio secondario. Gli altri capitoli del «confronto», fino al fatidico articolo 18 lasciato «per ultimo», verranno affontati nelle prossime due settimane. Ma ormai i tempi sembrano stretti: non c’è giorno in cui Mario Monti non ripeta che «la riforma sarà varata entro marzo». Con il consenso dei sindacati oppure senza. Le dichiarazioni della vigilia servono sempre a delimitare il campo di gioco, a far capire fin dove si è disposti a «concedere» alla controparte, a far intuire i «punti di caduta» che possono essere poi rivenduti – da tutti – come «vittorie». È il gioco tipico di ogni fase di trattativa. Susanna Camusso, segretario generale della Cgil, parlando da New York, ha messo i suoi paletti, sia rispetto al governo che davanti alle richieste interne – salite a chiare lettere da pizza S. Giovanni, venerdì – di proclamazione di uno sciopero generale di tutte le categorie. Al governo ha fatto capire che «siamo impegnati nel confronto anche per quanto riguarda gli elementi di cambiamento» e in particolare «allargare la copertura degli ammortizzatori sociali è un nostro obiettivo». Ma «senza risorse non è realizzabile». Anche perché «non è riproducibile un modello come quello utilizzato per le pensioni, in cui si toglie a chi ha e non si dà nulla a chi verrà ». Al governo (e alla sinistra interna, partendo dalla Fiom) ha invece se «è in cerca dello scalpo dei licenziamenti più facili» si rischia ovviamente una risposta del movimento sindacale. Che non sarà però «una fiammata» – ovvero uno sciopero generale – ma «una tensione sociale di lungo periodo». Un accenno indeterminato, certamente, ma che è stato sufficiente a scuotere Raffaele Bonanni, capo assoluto della Cisl: «spero che il governo voglia un accordo innovativo ed equilibrato e non fornisca alibi o dia stura a chi minaccia o rincorre tensioni sociali». Sintassi faticosa, ma significato trasparente: il governo trovi qualche soldo, così non si dà spazio alla Cgil o, peggio, alla Fiom. Se si trattasse soltanto di pantomima politico-sindacale, sarebbe solo noia. Ma la recessione morde. I dati sulle richieste di cassa integrazione di gennaio sono esemplari. Un totale di 82 milioni di ore, che se fossero tutte utilizzate – il fenomeno è noto: le aziende in genere chiedono più ore di quante pensano di usarne – corrispondono a 480mila lavoratori che rischiano il posto. In un solo mese. È una tendenza generalizzata, perché cresce sia l’ ordinaria (25 milioni di ore, +23,9% rispetto a gennaio), sia la straordinaria (25 milioni, +20,4); mentre quella in deroga letteralmente esplode: 31 milioni di ore e +134% sul mese precedente. Un trend insostenibile, anche perché la cig in deroga – al contrario delle altre due forme, che sono co-finanziate con contributi da imprese e lavoratori – è totalmente a carico della fiscalità generale. A fine anno il costo totale si aggirerebbe sui 2,1 miliardi. Forse le «tensioni sociali» di cui parla Camusso possono esplodere più qui – con assai meno controllo – che non dalle mobilitazioni centellinate in base all’avanzamento di un «confronto» di cui si sa obiettivamente poco. E quel poco non è per nulla buono. Né «equo».
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