Manlio Rossi-Doria, quell’idea di Mezzogiorno che si ispira all’America di Roosvelt

by Editore | 12 Marzo 2012 8:15

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Una vita per il Sud s’intitola la raccolta di lettere, quasi tutte inedite, che Manlio Rossi-Doria scrisse o ricevette fra il 1930, quando un tribunale fascista lo condannò a 15 anni di carcere,e il 1987, poco prima di morire (la raccoltaè pubblicata ora da Donzelli, a cura di Emanuele Bernardi, con una prefazione di Michele De Benedictis). E se c’è uno spazio fisico in cui, lungo tutta l’esistenza, questo economista agrario e intellettuale poliedrico e fuori dagli schemi, riversò ogni passione conoscitiva e politica, e che raccontò con la sua scrittura fattuale eppure limpida e flessuosa, come fosse lo strumento di una grande letteratura di viaggio, questo è proprio il Mezzogiorno d’Italia.

Rossi-Doria non è meridionale (è nato a Roma nel 1905), come non lo sono alcuni frai più insigni intellettuali che in maniere diverse si iscrivono al partito dei meridionalisti (il piemontese Umberto ZanottiBianco, il valtellinese Pasquale Saraceno, il lombardo Eugenio Azimonti, fino al torinese Carlo Levi o al triestino Danilo Dolci).

Ma il Mezzogiorno è lo spazio concreto in cui, dagli studi universitari alla morte, Rossi-Doria esercita la “politica del mestiere”, così la chiama, che sta a indicare un equilibrio continuamente aggiornato fra il sapere fatto di competenze, analisi, sperimentazione, obbligo di verifica, e lo slancio ideale, non ideologico, che sintetizza nell’immagine di un Sud riscattato dal “muro della miseria”.

Rossi-Doria, dopo essere stato comunista, si muove nel recinto del socialismo liberale ed è senza appartenenze. Per otto anni, dal ’68 al ’76, è senatore socialista. La sua militanza, però, è in quello schieramento minoritario, politico e culturale, che eredita dall’azionismo tensione morale e spirito di servizio. In più ci aggiunge un’attitudine alla concretezza che non è mai pragmatismo. Gli interlocutori che compaiono in questa raccolta di lettere danno la misura di una maglia spessa di rapporti, una rete che avvolge Guido Dorso e Ferruccio Parri, Luigi Einaudi ed Emilio Sereni, Lelio Basso, e poi Gaetano Salvemini, Umberto Zanotti-Bianco, Altiero Spinelli, Albert Hirschman, Arrigo Serpieri, il poeta-sindaco Rocco Scotellaro, Francesco Compagna, Eugenio Scalfari, Ernesto Rossi, Claudio Napoleoni, Pasquale Saraceno, Antonio Giolitti, Giorgio Ruffolo. E quindi Norberto Bobbio. Maestri, compagni di strada, amici: con loro intreccia un dialogo mai convenzionale, dal quale si aspetta molto, perché è il dialogo che consente di accertare la bontà  di un’idea, quanto essa sia realizzabile.

Dalle lettere a Salvemini, in cui prevede la sconfitta del 18 aprile 1948 («La lotta elettorale nel Mezzogiorno è impostata sulla demagogia e l’inconsistenza più pacchiane»), fino allo sfogo amaro eppure mai disperato dei messaggi a Bobbio, pochi mesi prima di morire («Ci basta continuare a restare al servizio delle giuste cose che abbiamo servito da giovani e, ognuno a modo suo, nel corso della nostra vita»), Rossi-Doria somiglia sempre di più al ritratto che di lui disegna Carlo Levi nell’ Orologio, dove compare negli abiti di Carmine Bianco: «Stava a cavallo con un piede sulla politica pura e l’altro sulla pura tecnica, ma questa stessa incertezza gli chiariva le idee, gli impediva di fossilizzarsi in un’abitudine mentale, lo conservava vivo e appassionato». Il Mezzogiorno Rossi-Doria lo batte palmo a palmo, lo osserva nelle grandi estensioni di latifondo, nelle zone aride e montuose e in quelle della “polpa”, dove l’agricoltura offre speranze. Custodisce nella memoria i paesaggi, decifra quanto di naturale essi contengano e quanto invece, molto di più, siano il frutto del lavoro degli uomini. Consulta dati e statistiche e poi attinge al racconto dei contadini. Ha studiato chimica e mineralogia, entomologia e microbiologia, ma quando percorre a piedi la Calabria, la Lucania o l’Abruzzo, è anche geografo.

Non si fida delle descrizioni uniformi, delle sintesi confortanti. Delle palingenesi totali. Invitaa distinguere i tanti tipi di agricoltura che convivono nelle regioni del Sud. Per realtà  diverse invoca politiche diverse. Non c’è problema per il quale non si sforzi di immaginare una soluzione in positivo. Pensa, a dispetto di molti, che l’emigrazione sia un fenomeno da incoraggiare, perché sfoltisce la pressione su suoli che non possono dare benessere a tanti e perché assicura competenze e rimesse in danaro. Ma poi reagisce sdegnato di fronte alle storie degli emigranti abbandonati a se stessi, senza alcuna assistenza, a cominciare dai treni che li portano al Nord come fossero bestie.

Le lettere, attentamente selezionate e curate da Bernardi, offrono tanti materiali per approfondire i suoi giudizi sulla Dc e la Chiesa, sulla riforma agrariae la Cassa per il Mezzogiorno, sulla tutela idrogeologica dei versanti appenninici e sul nucleare (al quale si oppone fieramente). Ma molti materiali servono anche a documentare, oltre quel che già  si sapeva, quanto Rossi-Doria consideri la “vita per il Sud” una vita che spazia da una dimensione locale, profondamente territoriale, fino ai più produttivi centri di ricerca europei e alle esperienze politiche e di studio che si compiono negli Stati Uniti. Il Centro di specializzazione e ricerche economico-agrarie, una delle migliori eccellenze dell’accademia italiana, fondato a Portici nel 1959, ha il sostegno della Cassa per il Mezzogiorno, ma anche della Ford Foundation e dell’Università  di California, dove RossiDoria ha soggiornato poco prima di dare avvio a quell’avventura. A Portici economisti, sociologi e antropologi americani avrebbero collaborato intensamente con i colleghi italiani, ha ricordato la storica Leandra D’Antone, che fu sua allieva.

L’attenzione per gli Stati Uniti è di vecchia data. «Hai ragione a pensare che Rossi-Doria sia uno degli uomini migliori dell’Italia di oggi», scrive Salvemini nel 1948 in una lettera ad Arthur McCall, alto funzionario del governo americano. «È un uomo di straordinaria intelligenza e di splendido carattere. Se si pensa che un tale uomo è stato messo fuori uso per il suo popolo con anni di prigione e di confino, si può capire quale disastro sia stato il fascismo per l’Italia». Nel 1951 Rossi-Doria, superando le diffidenze che gravano su di lui in quanto ex-comunista, compie il primo viaggio negli Usa.

Studia le bonifiche e i sistemi di assistenza pubblica all’agricoltura, sia tecnica che creditizia, prodotto del New Deal rooseveltiano. Si spinge fino alla Tennessee Valley. Alcuni di quei sistemi lo convincono, altri meno (come documenta D’Antone). Ma colpisce la sua disponibilità  ad apprendere, a confrontare esperienze, rompendo lo schema bipolare imposto dalla Guerra Fredda, come segnala Bernardi in Riforme e democrazia, una biografia di Rossi-Doria uscita nel 2010. Rossi-Doria è attratto dall’America dei democratici, recepisce metodi di indagine, studia le tecniche dell’inchiesta sociale (di cui darà  prova raccontando Scandale, piccolo comune del marchesato di Crotone e che gli servirà  anche in un progetto abruzzese, insieme ad Angela Zucconi e Leonardo Benevolo). E quando si rilassa, eccolo abbandonarsi all’arte dell’osservazione e del resoconto narrativo: «Un mese dopo, con esperienza fatta più riccae profonda», scrivea Bob Brand nel dicembre 1951 (la lettera è citata da Leandra D’Antone), «seduto su una bella poltrona del mark Hopkins Hotela San Francisco, con la città  stupenda sotto gli occhi,i ponti sospesi sulla baia, gli aeroplani nel cielo, il senso dell’oceano di fronte a quello del continente immenso alle spalle, guardand

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