Mancino: «Io usato e venduto nella trattativa con la mafia»

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ROMA — «Io sono amareggiato, non so più che cosa dire» mormora Nicola Mancino, ministro dell’Interno a partire dal 1° luglio 1992, nel pieno della presunta trattativa tra lo Stato e la mafia ricostruita dal nuovo atto d’accusa della Procura di Caltanissetta. Oggi, a ottant’anni compiuti, dopo essere stato presidente del Senato e vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, trascorre gran parte del suo tempo a leggere e rileggere articoli e carte processuali sulla stagione del terrorismo mafioso, di cui fu testimone diretto. 
Forse basterebbe dire la verità , presidente Mancino.
«Ma io l’ho detta! Ora vedo che i pubblici ministeri giudicano inverosimile il mio racconto, e ipotizzano che abbia qualcosa da nascondere. Ma io non ho segreti, se ne avessi li avrei già  svelati, in mezzo a tanti che ritrovano la memoria dopo diciassette o diciotto anni non sfigurerei di certo. Ma non conosco verità  inconfessabili, so solo ciò che ho riferito». 
Ma come può pensare che sia verosimile non ricordare di aver incontrato Borsellino, quello che tutti indicavano come l’erede naturale di Giovanni Falcone appena assassinato, nel giorno del suo insediamento al Viminale?
«Capisco che possa apparire incredibile ma andò proprio così. Non ho mai escluso di avergli stretto la mano, ma non l’avevo mai visto prima, e dunque non avrei potuto riconoscerlo. Un altro giudice, Aliquò, ha detto che lui e Borsellino ebbero con me un fugace saluto e se ne andarono delusi, il che è compatibile con il mio non ricordo. C’erano centinaia di persone alla cerimonia del mio insediamento. Nessuno mi indicò quel magistrato come Borsellino, né lui mi ha chiesto un colloquio più approfondito. Ma le pare che se avesse domandato di incontrarmi io non avrei accettato?».
Non mi pare. Però pare impossibile che lei non ricordi l’incontro con colui che già  era un simbolo dell’Antimafia, e di lì a poco ne divenne un martire. Borsellino appuntò sulla sua agenda l’incontro con lei.
«Il pentito Gaspare Mutolo riferisce che quel giorno Borsellino si allontanò dall’interrogatorio con lui per andare al Viminale, e quando tornò gli confidò di aver incontrato non me, ma Parisi e Contrada. Quel Contrada di cui Mutolo stava per rivelare le collusioni con la mafia. Il pentito è considerato attendibile, e il suo racconto coincide col mio. In ogni caso, a parte la possibile stretta di mano, è certo che dopo Borsellino non mi ha mai cercato. Tantomeno per dirmi che aveva intuito l’esistenza di una trattativa». 
Magari poteva cercarlo lei.
«E perché? Io ero ministro dell’Interno, non della Giustizia. E della presunta trattativa, dei carabinieri che erano in contatto con Vito Ciancimino non ho mai saputo niente». 
L’ex ministro della Giustizia Martelli dice di avergliene parlato, per lamentarsi di un’iniziativa che lui giudicava inopportuna. Mente Martelli o mente lei?
«Io non mento, a me Martelli non ha mai detto niente del genere. L’ho ribadito anche nel confronto che abbiamo fatto davanti ai magistrati di Palermo. Del resto non capisco il senso di lamentarsi con me: se pensava che i carabinieri stessero commettendo irregolarità  o scorrettezze, perché Martelli non l’ha detto al procuratore competente? Io non avevo nessun tipo di rapporto con l’allora colonnello Mori. Lui e i suoi superiori non mi comunicarono nemmeno la cattura di Riina: me lo disse il presidente della Repubblica. Figurarsi se mi informavano dei loro incontri con Ciancimino».
Eppure Massimo Ciancimino e il pentito Brusca, l’uno per averlo saputo dal padre Vito e l’altro da Totò Riina, sostengono che il terminale politico della trattativa con Cosa Nostra era lei.
«Posso confessarle una sensazione? Io penso di essere stato usato e venduto».
Da chi?
«È quello che vorrei sapere. Evidentemente qualcuno ha fatto il mio nome a Vito Ciancimino, politicamente distante mille miglia da me, e poi il nome è arrivato a Riina. Aspetto di sapere come e perché s’è realizzato questo millantato credito. Purtroppo Ciancimino è morto e il figlio è giudicato inattendibile dagli stessi magistrati di Caltanissetta». 
Può essere stato l’allora colonnello Mori?
«Non ho elementi per dirlo. Però è certo che Mori e il capitano De Donno s’incontravano con Ciancimino. Leggo che ritennero di non riferire nulla dei loro incontri nemmeno al giudice Borsellino. Questo a me pare inspiegabile».
Lei dice di non averne saputo nulla all’epoca, ma oggi s’è fatta un’idea più precisa sulla trattativa? Qualcuno nello Stato è sceso a patti con la mafia?
«Io non lo posso escludere. E credo, a posteriori, che la mafia può aver avuto l’impressione che qualcuno nello Stato stava cedendo alle sue pressioni e richieste. Pezzi dello Stato, però, da cui io sono fuori. Ora qualcuno dice che lo Stato ha sempre trattato, ma allora significa che io sono cresciuto in uno Stato che non ha avuto rispetto di se stesso. Io l’ho servito sempre con onestà  e determinazione, anche in un periodo torbido come quello. Fui per l’intransigenza contro i terroristi che tenevano in ostaggio Aldo Moro, s’immagini con i mafiosi. Preferisco passare per un ingenuo e magari un fesso, ma non come un furbo, o uno che nasconde la verità ».
Nel 1993 lei seppe che a qualche centinaio di mafiosi non fu rinnovato il regime di carcere duro e non fece nulla. Perché?
«Io venni a sapere da un giornalista che il ministro della Giustizia Conso, succeduto a Martelli, non aveva rinnovato 140 decreti e risposi che bisognava vedere di che calibro fossero. Ora si scopre che erano quasi 400, ma non ne ebbi mai comunicazione ufficiale. Del resto non era materia di mia competenza, e lo stesso Conso ha riferito di aver preso quella decisione in assoluta solitudine». 
Le pare credibile?
«Che le devo rispondere? Oggi leggo che ci fu una interlocuzione con la direzione delle carceri, evidentemente Conso avrà  meditato e poi deciso. Ne fossi stato informato io avrei posto il problema nelle sedi competenti; lui, col suo indiscutibile prestigio, ha fatto quel che riteneva di fare».


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