Madrid, la paura di perdere l’Europa

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Altro giro, altra corsa. La roulette russa della speculazione, dopo aver vinto per ko la sua guerra personale contro la Grecia, si concede un bis. E questa volta punta dritta al bersaglio grosso: la Spagna. I campanelli d’allarme hanno iniziato a suonare tra gennaio e febbraio. Nei primi due mesi dell’anno la borsa di Madrid è stato il brutto anatroccolo dei listini europei, l’unico a snobbare l’euforia dei mercati per il salvataggio di Atene. Non solo: i Bonos decennali iberici – dopo un 2011 passato a guardare dall’alto in basso i cugini italiani – si sono fatti sorpassare dai Btp nel derby mediterraneo degli spread. 
L’Europa politica, stremata dal calvario ellenico, sperava fosse un fuoco di paglia. E invece no. La disoccupazione iberica viaggia al 23%, il Pil – asfissiato dalla cura lacrime e sangue imposta da Ue e Fmi (e siamo solo all’antipasto) – calerà  quest’anno dell’1,7%. Il nuovo governo conservatore di Mariano Rajoy ha rivisto al rialzo il rapporto deficit/pil dal 4,4% al 5,3%, sfidando l’ira dei falchi continentali. E la speculazione, davanti al deja vu di un copione andato in scena pari-pari sotto il Partenone, ha mangiato la foglia: sistemata la Grecia, la Spagna è il nuovo ventre molle dell’euro.
Mario Monti, con una sincerità  che ha mandato in fibrillazione le diplomazie continentali («da che pulpito viene la predica», si lamentavano ieri i quotidiani iberici) è andato giù piatto: «La Spagna è una fonte di preoccupazione per l’Europa», ha detto a Cernobbio. Ieri tutti hanno provato a metterci una pezza: «Io non farei dichiarazioni così», ha risposto senza alzare i toni della polemica Rajoy. «Italia e Spagna sono determinate nella sfida agli squilibri», ha gettato acqua sul fuoco il numero uno della Bce Mario Draghi. Ma tant’è. Ormai le carte sono scoperte. La Borsa iberica ha indossato ieri per l’ennesima volta la maglia nera continentale (-0,84%). Lo spread tra i Bonos e i Bund è arrivato a quota 340 punti, 32 in più dei Btp, con un rendimento del 5,34%. E a testimonianza della serietà  della situazione, persino Angela Merkel è scesa in campo a favore di Madrid, annunciando che la Germania è pronta ad aumentare la potenza di fuoco del Fondo salva-Stati oltre i 500 miliardi, probabilmente a 700, regalando così una boccata d’ossigeno alle Borse. 
Ma perché la speculazione sembra aver deciso di accanirsi sulla Spagna e non sull’Italia? La risposta è facile: Madrid, nell’ottica cinica dei mercati, è oggi un bersaglio più debole di Roma. Durante il 2011, con l’agenda della politica italiana dettata dal Bunga-Bunga e dai processi, i ruoli erano invertiti. I mercati erano convinti che la penisola avrebbe fatto la fine della Costa Concordia e del Titanic, affondate mentre sul ponte si faceva festa. Mentre Madrid sembrava il Bengodi: il governo Zapatero, pur dimissionario, approvava l’austerity senza calcoli elettorali, tagliando pensioni, bonus bebè e stipendi statali. I Popolari di Rajoy, dati per vincitori da tutti i bookmaker nelle consultazioni (come è successo), votavano in spirito bipartisan il pareggio di bilancio in Costituzione. Morale: i Bonos, al 31 dicembre scorso, rendevano l’1,91% in meno dei Btp.
Ora è cambiato tutto. Il governo Monti ha varato la riforma delle pensioni, le semplificazioni, le liberalizzazioni e le nuove norme sul lavoro. Mentre Rajoy, una volta eletto, si è mosso a scartamento ridotto: ha rivisto al rialzo dal 6 all’8,5% il rapporto deficit pil del 2011. Ha riformato con decisione il mercato del lavoro, ma ha tentennato sui tagli alle spese. Facendo saltare la mosca al naso a Bruxelles quando, subito dopo l’approvazione del fiscal compact, si è presentato all’eurogruppo annunciando unilateralmente che Madrid non avrebbe rispettato il limite nel rapporto deficit/Pil del 4,4% fissato dai trattati, auto-alzandoselo al 5,8% (noi siamo al 3,9%).
La speculazione, veloce nel far di conto, ha spostato così il tiro. I nodi al pettine sono tanti: certo, il debito di Madrid non è altissimo, siamo oggi al 66% del Pil contro il 120% dell’Italia. Solo quattro anni fa però, prima dello scoppio della bolla immobiliare, viaggiava al 40% mentre le Cassandre prevedono l’assalto a quota 100%. Tagliare i costi non è facile: le 17 regioni autonome (molte governate dai popolari) che gestiscono in proprio un terzo delle spese nazionali hanno chiuso il 2011 con un deficit vicino al 3% contro l’1,3% previsto dalla Ue. E sono riottose a tagliare di più i fondi per sanità  e istruzione. E ad avvelenare le acque c’è l’eredità  letale della bolla del mattone: i 400 miliardi di esposizione immobiliare delle banche, i 5,6 milioni di disoccupati, le famiglie superindebitate (i mutui valgono il 190% del pil contro la media del 51% nella Ue), i 200 sfratti al giorno nella capitale. E una ricchezza privata che è la metà  di quella dell’Italia. 
Rajoy, a pochi mesi dal plebiscito che l’ha spedito alla Moncloa, ha già  finito la luna di miele con gli elettori. «Dimostreremo all’Europa che può fidarsi di noi e non alzeremo le tasse» aveva assicurato a dicembre. Due promesse che si è già  rimangiato visto che l’Iva è salita dal 16 al 18%. Alle amministrative di domenica, le urne l’hanno punito. I Popolari hanno perso 400 mila voti in Andalusia dove la sinistra (che qui ha sempre governato nel dopo-Franco) rimarrà  al governo. I socialisti hanno addirittura guadagnato seggi nelle Asturie, la terra di Fernando Alonso. E nei prossimi giorni il premier è atteso a un passaggio cruciale: lo sciopero generale dei sindacati di giovedì. In coincidenza con la presentazione di una finanziaria che si preannuncia lacrime e sangue. La Ue pretende che Madrid riporti il rapporto deficit/Pil al 3% entro il 2013. In soldoni, Rajoy deve trovare 55 miliardi in due anni. La strada per la Spagna è in salita. E la speculazione è in agguato a ogni curva.


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