«Un aiuto politico contro Assad»

by Editore | 25 Marzo 2012 15:56

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Il regime di Assad vuole fare «terra bruciata» afferma Burhan Ghalioun, professore di sociologia politica, responsabile del Centro studi arabi dell’Università  Sorbonne nouvelle e dal 2011 presidente del Consiglio nazionale siriano. 
A un anno dall’inizio della rivoluzione, qual è la situazione?
Malgrado tutte le trasformazioni che hanno avuto luogo, sia a livello nazionale che internazionale, sia nel campo dell’opposizione che in quello del regime, la prospettiva di un’uscita dalla crisi non c’è ancora. Il regime ha perso ogni credibilità , è sempre più isolato, l’Onu ha condannato la sua politica, non ha più nessuna etica, ma si rifugia sul solo elemento che lo fa vivere: la violenza, l’escalation continua. Il suo obiettivo è schiacciare la rivoluzione prima della Conferenza a Istanbul degli Amici della Siria, il 1° aprile prossimo. Ha iniziato con gli snipers, adesso fa ricorso alle armi pesanti contro tutto, Homs, Dahra ecc. Anche il mondo degli affari ha abbandonato Assad, si è costituito un Consiglio di uomini d’affari liberi. Tutta la società  si sta risvegliando alla vita politica. Nascono formazioni, correnti, tribune politiche. La nuova società  civile si reinventa: sono nati un ordine dei medici liberi, uno degli avvocati, ingegneri, intellettuali. La società  cambia, anche prima della vittoria.
La rivoluzione fa anch’essa ricorso alla violenza?
La rivoluzione è nata pacifica al 100%, di fronte a una repressione sempre più violenta. Poi c’è stata la diserzione dei militari, che hanno rifiutato di sparare sui loro connazionali. Allora si è costituito l’Esercito siriano libero, che ha stabilito come missione la protezione delle manifestazioni pacifiche della popolazione.
Il Cns chiede un aiuto, un intervento dall’estero?
Per un anno i siriani non hanno ricevuto nessun aiuto dall’estero. La rivoluzione è stata finanziata dall’interno. Ma oggi i bisogni sono più importanti. Per questo speriamo in un sostegno internazionale. In primo luogo un sostegno politico. Finora, la comunità  internazionale non ha fatto nessuna azione forte per fermare Assad. Chiediamo che venga imposto ad Assad di lasciare libero accesso alle organizzazioni umanitarie, di difesa dei diritti dell’uomo, per aiutare la popolazione. La stampa non può entrare liberamente e molti giornalisti entrati clandestinamente sono stati uccisi. Abbiamo chiesto degli osservatori, una forza di peacekeeping, ma non è stato fatto nulla. 
Il Cns è stato accusato di volere un intervento Nato.
Mai nessuno ha chiesto un intervento della Nato. La Siria non la Libia, e nessun paese, gli Usa in primo luogo, ha promesso né parlato di un intervento del genere. Si tratta di un falso dibattito inventato dal regime per denigrare l’opposizione. I paesi arabi hanno parlato di Caschi Blu arabi, con la presenza anche dei turchi. Questa può essere la soluzione per evitare rischi ancora più gravi alla stabilità  della regione.
Cosa impedisce secondo lei questa strada?
È la dimensione regionale. L’occidente non ha lavorato abbastanza per convincere la Russia, che deve essere implicata. Bisogna riflettere in termini regionali, rinegoziare la stabilità  del Medioriente. I russi si oppongono perché hanno in testa l’esempio della Libia, che a lungo è stato un cliente della Russia e adesso lo è dell’occidente. Per la Cina è soprattutto il timore dell’esempio della rivoluzione popolare. Israele preferisce Assad debole che una rivoluzione democratica, Netanyahu ha fatto pressioni sugli Usa per frenare gli aiuti.
Perché i paesi del Golfo, non certo democratici, appoggiano il Cns?
Il regime di Assad è stato a lungo alleato con i paesi del Golfo, ma quando si è allineato con l’Iran c’è stato un rovesciamento. Assad ha minacciato di far esplodere nel Golfo le divisioni confessionali. In Arabia saudita c’è una minoranza di sciiti, per non parlare del Bahrein, dove sono maggioranza. I paesi del Golfo non sono certo attirati dalla rivoluzione e dalla democrazia, ma è un modo per opporsi all’attivismo regionale dell’Iran. C’è convergenza sul fatto che non ci siano legami con la questione della democratizzazione. 
La Siria rischia una guerra civile?
Dall’inizio la rivoluzione è cosciente del rischio che altri paesi utilizzino le divisioni confessionali contro di essa. Per questo abbiamo insistito sull’unità  nazionale. Certo, nelle manifestazioni le minoranze, a cominciare da quella cristiana, hanno in percentuale una presenza minore dei sunniti. Ma partecipano, malgrado il ricatto a cui Assad sottopone le minoranze, minacciate di vendetta. Si è visto con gli alaouiti che hanno partecipato e che hanno avuto le case bruciate. Il regime fa una politica di divisione. Esiste un potenziale di scontro interconfessionale, ma i militanti democratici hanno fatto di tutto per disinnescare il conflitto. Lo slogan «uno, uno, uno, il popolo siriano è uno» è molto diffuso. Ed è importante sottolineare che, malgrado le manovre del regime, questo conflitto non sia ancora esploso. Nella storia della Siria le minoranze hanno sempre avuto un ruolo, non bisogna dimenticarlo. Il primo ministro dopo l’indipendenza nel ’46, per fare un esempio, era cristiano.
Il Cns è criticato, vengono alla luce divisioni. È rappresentativo?
Quando la rivoluzione è iniziata c’erano tre grandi coalizioni dell’opposizione: la Dichiarazione di Damasco, una coalizione di partiti piuttosto liberal, i Fratelli musulmani e il Coordinamento nazionale per il cambiamento, dei nazionalisti di sinistra, che non è entrato nel Cns. Adesso nuove forze emergono. Soprattutto delle coalizioni di giovani che militano sul terreno e che sono rappresentate nel Cns. C’è anche l’Esercito libero presente sul campo, nei quartieri. Il Cns non ha mai detto di essere il solo rappresentante dell’opposizione, sono i coordinamenti dei giovani e la comunità  internazionale, tramite gli Amici della Siria (che riunisce più di 70 paesi) che l’hanno designato come interlocutore.
Il Cns è criticato da sinistra? 
Secondo me, il Coordinamento nazionale ha ancora una logica da guerra fredda. Sta attraversando una crisi, una corrente, Tribuna democratica, ha abbandonato. Negli ultimi 4-5 mesi, l’opposizione si è arricchita di nuove formazioni, c’è un processo in corso per integrarle nel Cns. Ci sono state alcune dimissioni – nei fatti, tre personalità  – che non modificano la situazione – e che del resto stanno rivedendo la loro posizione.
I Fratelli musulmani rappresentano un problema per il futuro?
Non rappresentano nessun problema. È una componente dell’opposizione ma non maggioritaria ed è un movimento diviso in diverse correnti, ci sono alcuni più moderati alla turca fino ai più radicali. Nuove organizzazioni, ivi compreso laiche, entrano anche nel Cns. L’avvenire democratico della Siria, secondo me, è legato a tre elementi: 1) mantenere il carattere pacifico e popolare della rivoluzione; 2) l’esercito libero deve organizzarsi per difendere la popolazione; 3) ci vuole una mobilitazione internazionale per far capire ad Assad che i suoi crimini saranno giudicati e puniti. Assad deve andarsene per permettere dei negoziati in un periodo di transizione, sotto l’egida dell’Onu. La missione di Kofi Annan ha stabilito le condizioni di applicazione del piano arabo: mettere fine alla violenza, le truppe nelle caserme, libertà  per i prigionieri, accesso libero per la stampa e le organizzazioni umanitarie. Se il piano verrà  sabotato da Assad, un intervento internazionale potrebbe diventare inevitabile di fronte al massacro quotidiano che ormai dura da un anno. Il paese è in rovina, c’è una minaccia sulla stabilità  regionale. 

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