L’ultima offerta cgil: «salvare» il reintegro

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ROMA — È una questione di sfumature, ma le sfumature sono importanti in questa partita sull’articolo 18, che il presidente del Consiglio considera «chiusa» e che invece la leader della Cgil, Susanna Camusso, dichiara ancora «aperta», come ha detto ieri ai suoi riuniti nel direttivo della Cgil. E la sfumatura sta nel fatto che ieri il parlamentino del sindacato rosso ha approvato sì 16 ore di sciopero e una mobilitazione vasta con la raccolta di «milioni di firme» contro il provvedimento del governo, ma ha anche respinto a larga maggioranza la proposta della sinistra interna, capeggiata da Landini e Rinaldini, di porre quale obiettivo della lotta il ripristino integrale dell’articolo 18. 
Camusso, a porte chiuse, ha detto chiaramente che la Cgil non può aspettarsi di riconquistare l’articolo 18 tale e quale come scritto nello Statuto dei lavoratori del 1970. Il tabù è stato infranto e non si torna indietro. Pensare il contrario significherebbe prendere il giro i lavoratori, ha aggiunto. I quali invece, secondo il segretario della Cgil, possono e devono essere chiamati alla lotta, ma su un obiettivo realistico. Che, a questo punto, è quello di ottenere che anche sui licenziamenti per motivi economici sia il giudice a decidere tra reintegro e indennizzo del lavoratore licenziato illegittimamente. Un obiettivo che Camusso non ha esplicitato solo per ragioni tattiche, ma che tutti sanno essere il nuovo traguardo della Cgil. 
E così, nel documento presentato dalla segreteria e approvato con 95 voti favorevoli, due soli contrari (Cremaschi e Bellavita) e 13 astenuti, tra i quali lo stesso Landini, c’è scritto che sul punto dei licenziamenti la Cgil si mobilita per ottenere di nuovo che l’articolo 18 abbia una funzione di «deterrenza» rispetto ai licenziamenti senza giusta causa e giustificato motivo. E la deterrenza esiste se c’è il diritto al «reintegro». 
Questo significa, appunto, anche se nel documento non c’è scritto, che la possibilità  del reintegro deve tornare dove non c’è nella proposta del governo, cioè sui licenziamenti per motivi economici, che, secondo Monti, devono invece essere possibili in cambio di un indennizzo. Sono questi i licenziamenti «facili» che per la Cgil vanno tolti di mezzo. Come? Con l’estensione, appunto, del modello tedesco ai licenziamenti economici. 
Del resto questa era l’ultima mediazione tra Cgil, Cisl, Uil e Ugl, che i sindacati avevano raggiunto lunedì e che i quattro segretari generali avevano rappresentato a Monti martedì mattina a Palazzo Chigi, ma che lo stesso premier aveva seccamente respinto. Ed è questa la proposta che ieri un Pd in evidente difficoltà  ha rilanciato, chiedendo al governo di correggere il testo che invece Monti considera chiuso. 
A questo punto Camusso e Bersani, che si sono sentiti più volte negli ultimi giorni, tentano di stringere in una morsa il premier. Bersani, infatti, dopo il direttivo di ieri, può contrastare l’affermazione di Monti che la Cgil sia indisponibile a modificare l’articolo 18 e sostenere che invece, se si mette il giudice anche sui licenziamenti economici, si può ottenere il sì, sia pure sofferto, di Camusso. 
Tanto più che ieri il leader della Uil Luigi Angeletti, dopo la riunione della direzione, dove due categorie importanti come chimici e agroalimentari hanno preso posizioni molto critiche verso la riforma Monti, ha sostenuto anche lui che ci vuole il giudice sui licenziamenti economici. Una posizione che contrasta con quanto aveva detto il premier l’altro ieri a chiusura della trattativa, cioè che le proposte del governo erano state accettate da tutte le parti sociali, tranne la Cgil. Un teatrino, quello andato in scena ieri sul palcoscenico politico-sindacale, che ha irritato il segretario della Cisl, Raffaele Bonanni, il quale si è intestato il merito della riforma e preferirebbe che la partita fosse chiusa. Ecco perché ieri ha sfidato lo stesso Bersani a presentare entro oggi stesso («visto che i testi della riforma non sono ancora scritti») le sue proposte di modifica a Monti e Fornero «e se li convincono, meglio». Ma più l’asse Bersani-Camusso preme su Monti più è probabile che Confindustria e Pdl si facciano sentire per bloccare ogni annacquamento del nuovo articolo 18.
La partita ora si gioca in Parlamento e nelle piazze. In Parlamento la Cgil guarda al Pd, ma non solo. Nei corridoi del piano interrato di corso d’Italia, dove si è riunito il direttivo, ieri alcuni dirigenti del sindacato rosso si consultavano sugli scenari e speravano nel partito di Pier Luigi Bersani che, per buona parte della Cgil, è ancora il punto di riferimento politico. Qualcuno azzardava che se il Pd si mettesse di traverso, alla Camera il governo potrebbe non avere i voti per far passare il provvedimento sull’articolo 18, presupponendo ovviamente che la Lega e l’Idv siano contrari e che il Pd sia compatto, ipotesi tutta da verificare. Ecco perché Camusso non crede a uno scenario del genere. Sa che il governo non può cadere e che il Pd deve continuare a sostenerlo se non vuole rischiare di spaccarsi. L’unica possibilità , dunque, è mobilitare la piazza e creare problemi nelle fabbriche. Per spingere Monti e la Confindustria, sotto la pressione del Pd, a cedere sui licenziamenti economici, sapendo che a quel punto la Cgil si riterrebbe soddisfatta.


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