by Editore | 20 Marzo 2012 8:05
ROMA — Il procuratore aggiunto della Direzione nazionale antimafia, Alberto Cisterna, non può rimanere al suo posto. Dev’essere trasferito, perché coi suoi comportamenti ha fornito una «apparenza di parzialità » incompatibile col ruolo che riveste, e ha incrinato «irrimediabilmente» l’attività di coordinamento investigativo attribuito al suo incarico. Restando al suo posto il numero due della Superprocura guidata da Piero Grasso non svolgerebbe più il suo lavoro con l’immagine di «indipendenza e imparzialità » che è invece indispensabile.
È quanto ha stabilito ieri la prima commissione del Consiglio superiore della magistratura, che con cinque voti favorevoli e un astenuto ha approvato la proposta del relatore Roberto Rossi di trasferimento d’ufficio per Cisterna, dovuta a incompatibilità funzionale. Su questa decisione dovrà ora pronunciarsi il plenum dell’organo di autogoverno dei giudici. La vicenda nasce da un’indagine penale a carico dello stesso Cisterna, avviata dalla Procura di Reggio Calabria per corruzione in atti giudiziari dopo le rivelazioni del pentito di ‘ndrangheta Antonio Lo Giudice. Il pentito ha riferito che suo fratello Luciano — all’epoca libero, oggi in carcere e condannato per usura, estorsione e altri reati — gli confidò di aver chiesto aiuto a Cisterna per conto di un altro fratello finito nei guai con la giustizia (poi a sua volta pentito), Maurizio; e di avergli fatto intendere che aveva dovuto spendere «molti soldi». Da questa dichiarazione alquanto generica, dalla quale Cisterna s’è difeso in un interrogatorio avvenuto alcuni mesi fa, è scaturita un’inchiesta non ancora conclusa. Nel corso degli accertamenti sono venuti alla luce altri episodi che, trasmessi al Csm, hanno determinato l’apertura della pratica para-disciplinare che ieri è approdata alla proposta di trasferimento d’ufficio.
In particolare sono emerse le origini della conoscenza tra il magistrato calabrese (che aveva lavorato a Reggio Calabria e da sostituto procuratore nazionale coordinava le indagini sulla ‘ndrangheta reggina) con Luciano Lo Giudice, fratello del pentito Antonio. Il quale, tra le altre cose, si è autoaccusato degli ultimi attentati contro la magistratura reggina, motivati proprio col presunto accanimento giudiziario verso il fratello, che invece si era sempre ritenuto garantito da una certa protezione. Cisterna e Luciano Lo Giudice si incontrarono la prima volta in un rimessaggio per barche quando Luciano era incensurato, sostiene il magistrato; e dopo aver saputo che costui poteva fornire informazioni utili per la cattura del latitante Pasquale Condello, lui lo mise in contatto con un colonnello dei carabinieri passato al servizio segreto militare. Una procedura che la prima commissione del Csm considera irrituale e sintomatica di contiguità tra magistrati e agenti segreti che invece andrebbe evitata.
Inoltre Cisterna ha ricevuto lettere dallo stesso Lo Giudice anche dopo il suo arresto, di cui non ha subito informato il capo dell’ufficio, ed ha avuto contatti e almeno un incontro anche con la moglie. Dagli atti è poi emersa una telefonata del magistrato a un carabiniere dopo che Luciano Lo Giudice era stato controllato da una pattuglia dell’Arma a bordo della propria auto, nella quale il magistrato avrebbe spiegato che il fermato era un confidente. Tutti comportamenti che Cisterna ha negato o spiegato con intenti o condotte più che lecite, ma che al Csm sono bastate per sostenere che non può rimanere al suo posto. Quello che conta, secondo i consiglieri della prima commissione, al di là delle effettive intenzioni o responsabilità , è l’immagine di imparzialità che Cisterna avrebbe incrinato coi suoi comportamenti, dando l’impressione di non disdegnare rapporti con una persona anche solo percepita come contigua alla criminalità organizzata. O addirittura di volerla favorire. Anche se non era vero.
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