by Editore | 20 Marzo 2012 7:54
Lo pensa anche Bijay Kumar Dash, il socio d’affari con il quale Bosusco ha aperto nel 2001 l’agenzia di viaggi Orissa Adventurous Trekking, proprio qui a Puri, Stato dell’Orissa, una specie di Riccione locale sul Golfo del Bengala: una classica stanza indiana che si apre completamente sulla strada, ma in queste ore chiusa dalla porta verde e da un lucchetto. «Sono convinto che li libereranno presto — dice Bijay —. Tutto lo fa pensare». Non si riferisce tanto alle dichiarazioni ottimiste della diplomazia italiana e della politica indiana, che pure ci sono state e fanno sperare, anche se l’ultimatum è stato spostato a stasera. O al mediatore nominato dal governo dello Stato, Dandapani Mohanti che ha risolto un caso simile poco tempo fa e sarà affiancato da due altre personalità : Narayan Sanyal, leader maoista in carcere nello Stato di Jharkhand, e Biswapriya Kanungo, avvocato e attivista per i diritti umani. È che Bijay ha appena saputo che la moglie del capo dei maoisti che hanno rapito il suo socio e amico da 12 anni ha chiesto che Bosusco e Colangelo vengano liberati. Non è cosa da poco. Mili Panda, consorte del leader Shabhasachi Panda, è in carcere ed è uno dei prigionieri politici che i maoisti chiedono vengano liberati in cambio del rilascio dei due italiani: la sua dichiarazione sembra quasi una sconfessione del marito, che forse ha alzato troppo il livello dello scontro sequestrando due stranieri. In ballo ci sono le «13 condizioni» poste al governo, tra le quali lo stop immediato ai turisti nelle zone tribali, il rilascio di diversi leader maoisti e un «corridoio sicuro» per il transito dei guerriglieri oltre a, naturalmente, la fine dell’offensiva militare contro di loro.
«Ma non solo — continua Bijay —. Oggi qui a Puri c’è stata una grande manifestazione per la liberazione dei due italiani. C’erano tutti, bambini e anziani, con cartelloni e striscioni. Paolo era conosciuto e rispettato, ora tutti dicono: “Liberate Paolo”. In più, questo rapimento rischia di fare danni al turismo, che è la principale risorsa della città ». Nella sua casa, non lontano da quella di Paolo — sulla Ct Road, strada polverosa di shopping indiano e souvenir — estrae dalla busta dei documenti importanti l’atto di registrazione della Orissa Adventurous Teekking, nel 2001: capitale sociale di mille rupie (al cambio di oggi, 15 euro), registrata dal notaio Hara Mohan Jena di Bhubaneswar, capoluogo dell’Orissa. E, con orgoglio, la licenza 419 del 2001 emessa da Sri Chandra Madhab Mishra che permette alla società numero 3073 di organizzare spedizioni di trekking, di organizzare rafting, di favorire l’interscambio culturale. «Non ci avrebbero dato questa licenza — dice — se non fossero stati certi che avremmo rispettato le zone in cui andavamo, le popolazioni tribali del posto».
Bijay dice che Paolo aveva una macchina fotografica ma non la usava: «Preferiva guardare». E che ha sempre selezionato i clienti da portare nella giungla sulla base della loro intenzione di rispettare tribù e natura. L’accusa sollevata dai maoisti — o Naxaliti — che hanno detto di avere tenuto d’occhio Bosusco da tempo e di avere stabilito che approfittava dei poveri della giungla e organizzava «safari umani» è dunque falsa, assicura. «E non è nemmeno vero che Paolo e Claudio erano in una zona interdetta dal governo: con una coppia di tedeschi, per esempio, c’eravamo già stati due o tre volte, senza problemi». Anche la richiesta che i guerriglieri hanno avanzato di bandire il turismo dall’Orissa è insomma, oltre che ridicola, pretestuosa.
Seduto a gambe incrociate sul letto di Paolo — in India ci si siede molto sui letti — il suo aiutante numero uno, Santosh, racconta che le cose stavano andando normalmente il 12 e 13 marzo, durante il trekking con Claudio: avevano dormito in una piccola chiesa in un villaggio tribale, avevano fatto parecchia strada. «Il 14 mattina — dice — abbiamo camminato per qualche ora, poi ci siamo fermati per rilassarci. Scendevamo lungo un fiume e Paolo e Claudio hanno fatto un bagno. Io avevo iniziato a preparare da mangiare, loro si stavano asciugando, Claudio era in mutande (Santosh parla anche un po’ di italiano) e all’improvviso sono sbucati sette o otto Naxaliti. Ci hanno puntato i fucili, ci hanno fatto stendere faccia a terra, ci hanno legato le mani. Poi ci hanno fatto attraversare il fiume e ci hanno bendati. Sotto braccio a loro abbiamo iniziato a camminare, ci dicevano di stare zitti». Le cose sono andate avanti così: da un certo punto in poi a mani slegate e occhi liberi su per la foresta di montagna. Per due giorni e due notti.
La sera del 16, quattro guerriglieri hanno preso Santosh e Kartik e sono partiti per una nuova camminata. «Ci hanno detto che ci liberavano, volevano annunciare di avere in mano due italiani — dice Santosh —. Così abbiamo camminato tutta la notte, al chiarore della luna, fino a che, il mattino dopo, abbiamo incontrato della gente, una tribù. Ci hanno lasciato lì e un ragazzo ci ha portato in moto in città , a Daringbadi». Lì, hanno incontrato un poliziotto. La notizia del rapimento «di due italiani» intanto era diventata pubblica con l’annuncio registrato del capo guerrigliero, Panda: la rivendicazione. Santosh e Kartik prendono la fotocopia del visto d’ingresso in India di Bosusco: un anno, dal 17 ottobre 2011 alla stessa data del 2012. Visto multiplo, per potere entrare, uscire e lavorare. «Ogni anno ha pagato le tasse in India», nota Kartik. E i tre amici, assieme, sono certi: tornerà presto a pagarle, non lascerà Puri e la giungla dell’Orissa.
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