L’ottimismo della ragione

by Editore | 6 Marzo 2012 7:57

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Il pessimismo è diventato bipartisan. A sinistra molti vedono un mondo in preda a diseguaglianze crescenti, con un esercito di poveri in aumento, e un’Apocalisse ambientale in arrivo. La destra descrive una società  occidentale assediata da forze ostili: gli immigrati, un mondo arabo in preda al fondamentalismo. Gli uni accusano il capitalismo, gli altri la secolarizzazione e la perdita di fiducia dell’Occidente nei propri valori. 
E se il mondo in cui viviamo fosse un luogo migliore di come viene rappresentato? Quando Bill Gates partecipò all’ultimo vertice del G20, dovendo tenervi una relazione sugli aiuti allo sviluppo, portò con sé il libro di Charles Kenny ora tradotto in italiano con il titolo Va già  meglio, sottotitolo “Lo sviluppo globale e le strategie per migliorare il mondo” (Bollati Boringhieri). “E’ un saggio molto efficace – sostiene Gates – per spiegare che gli aiuti allo sviluppo ottengono risultati incredibili con costi modesti: a malapena l’1% o il 2% della spesa pubblica nella maggior parte dei paesi ricchi. Ed è la prova che bisogna guardare oltre il Pil, per misurare questi risultati”.
Appena cinquant’anni fa, osserva Gates attingendo ai dati di questo libro, più della metà  della popolazione mondiale era denutrita o sotto-nutrita, oggi la percentuale è scesa ben al di sotto del 10%. In Africa la longevità  si è allungata di ben dieci anni dal 1960, e questo nonostante il terribile impatto dall’epidemia di Hiv-Aids. Meno della metà  dei bambini del pianeta frequentavano la scuola elementare nel 1950, oggi sono il 90%. L’alfabetizzazione si è più che raddoppiata dal 1970 ai nostri giorni perfino in quell’Africa sub-sahariana che ci ostiniamo a considerare come un’area di sola miseria e sofferenza. 
Quello che ci rende ciechi – e pessimisti – è l’ossessiva attenzione al Pil e ad ogni altra misurazione economica del benessere. Per quanto diciamo che il Pil non è tutto, poi per pigrizia finiamo per guardare quasi solo a quello. Ma perfino dal punto di vista del benessere individuale il metro monetario è peggio che fuorviante. Ci fa ignorare il progresso vero, quello che conta. Un esempio: alla fine del XIX secolo la Regina Vittoria era la persona più potente del pianeta, dominava su un quarto della popolazione mondiale, possedeva un fantastico patrimonio personale e viveva nel lusso; tutto ciò non le impedì di perdere una figlia e una nipote uccise dalla difterite; una malattia che ai nostri giorni si previene con un vaccino del costo di pochi euro e che è alla portata di tutti.
Quando si parla di diseguaglianze sociali crescenti – un fenomeno incontestabile, in atto in molti paesi – si omette di specificare che il divario è misurato da redditi e patrimoni. Gran parte dei beni che definiscono la qualità  della vita – la riduzione delle morti al parto, l’allungamento della longevità , l’istruzione, l’accesso all’informazione e alle comunicazioni – sono diffusi molto più equamente che nel passato. Se guardiamo a questi indicatori di vero benessere, le nostre società  sono molto più egualitarie oggi. Questo vale anche nei confronti tra l’Occidente e il resto del mondo, o il Nord e il Sud del pianeta. La Liberia è uno dei paesi più poveri del mondo, e se guardiamo solo agli indicatori economici il suo bilancio è fallimentare. Eppure negli ultimi 30 anni anche in Liberia la mortalità  infantile è crollata, e se negli anni Ottanta la maggioranza della popolazione era analfabeta oggi l’80% delle bambine sa leggere e scrivere.
“Il più grande successo nello sviluppo dell’umanità  – scrive Kenny – non è stato nel rendere la gente più ricca, ma nel rendere molto meno costosi quei beni che contano davvero come la salute e l’istruzione”. E’ la nostra attenzione monomaniacale sul reddito e sul Pil, quella che rende visibili sui nostri schermi radar solo i fenomeni di sviluppo in Cina, India e Brasile. Ma la longevità  media negli ultimi anni è cresciuta più in Siria che in Cina. In Libia la durata di vita media, 74 anni, è di soli 4 anni più corta che negli Stati Uniti. La ragione per cui questi progressi non si accompagnano necessariamente a storie di boom economico, è che la salute di massa oggi costa pochissimo; è “l’effetto Regina Vittoria”.
Inoltre la nostra lettura della storia contemporanea soffre di una mancanza di prospettiva: a furia di seguire gli eventi minuto per minuto, perdiamo il senso dell’evoluzione su periodi lunghi. Nel misurare l’avanzata della democrazia nel mondo, tendiamo a dimenticare che appena 40 anni fa le donne non avevano il diritto di voto in Svizzera, mentre oggi votano anche in Egitto. Questo naturalmente può scatenare tensioni sociali, e anche conflitti violenti, quando si creano sfasature nella diffusione di diritti e opportunità  economiche: tanta crescita economica ma il cappio della censura di Stato in Cina; più accesso all’informazione che ai posti di lavoro nel mondo arabo. Ecco dunque un altro capitolo del progresso umano che sfugge alla misurazione economica: sì, l’America ha avuto una dilatazione delle diseguaglianze nei redditi e nei patrimoni durante gli ultimi 40 anni; in compenso però ha visto regredire le discriminazioni basate sul sesso, la razza, la religione, o l’orientamento sessuale.
Chi ha nostalgia dei “bei tempi andati” e guarda con tenerezza retrò ai nostri album di foto degli anni Cinquanta e Sessanta, lo fa o perché soffre di amnesìe selettive, oppure perché ha la fortuna di appartenere a quella élite privilegiata che stava davvero molto bene 40 anni fa. Questo vale anche in generale per l’Occidente, così cupo oggi nella sua visione del futuro: il sospetto è che ciò sia dovuto allo shock del ridimensionamento inesorabile della leadership dell’uomo bianco.
Il saggio di Kenny è un utile strumento per fare un’operazione-verità , premessa indispensabile per uscire dalla crisi con le priorità  giuste. Rendersi conto che oggi il Vietnam ha raggiunto solo il reddito pro capite dell’Inghilterra di Charles Dickens, ma ha il 95% della popolazione che sa leggere e scrivere (contro il 69% degli inglesi dell’Ottocento) e una longevità  di 69 anni contro 41, costringe a chiedersi: che cosa conta davvero? Un’altra lezione è preziosa al termine di questa operazione di “pulizia” nella nostra interpretazione del mondo: tutti quei beni che definiscono la vera qualità  della vita – salute, istruzione, diritti – sono strettamente legati al ruolo dello Stato. E questo, piaccia o no, è un innegabile riscatto delle idee che sono all’origine della sinistra.

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