L’Oil condanna Belo Monte
Questa volta è l’Organizzazione internazionale del lavoro, Oil, ad alzare la voce. Un recentissimo rapporto dell’Organizzazione che ha sede a Ginevra infatti afferma che il governo brasiliano non ha debitamente consultato le popolazioni indigene toccate dalla costruzione dell’impianto idroelettrico di Belo Monte prima che i lavori fossero avviati – e chiede di farlo ora, prima che gli effetti negativi dell’opera diventino irreversibili.
Il documento dell’Oil si aggiunge a quelli in cui già la Commissione interamericana per i diritti umani (Cidh) e il Pubblico ministero federale chiedevano al governo di Brasilia di sospendere le opere per la centrale idroelettrica. La diga di belo Monte è tra i progetti più controversi di questi ultimi anni in cui il Brasile sta mettendo mano alle sue risorse naturali per sostenere una forte crescita industriale (solo negli ultimi mesi rallentata, sotto l’effetto della crisi mondiale). Belo Monte è progettata per una capacità di 11.200 megawatt di potenza, che significa l’11% della potenza installata in tutto il Brasile. Costerà 11 miliardi di dollari e aspira a essere la terza centrale idroelettrica al mondo, dopo quelle delle Tre Gole in Cina (20.300 MW) e di Itaupù tra Brasile e Paraguay (14.000 MW). Il progetto è allo studio fin dagli anni ’70 ma è stato definito nei ’90, provocando da subito ondate di critiche in Brasile e fuori – e di proteste lungo il Xingù. Molti hanno messo in questione l’impatto ambientale e sociale di un’opera così gigantesca, che formerà un lago di 516 chilometri quadrati inondando circa 400mila ettari di foresta amazzonica – due volte la Sicilia – e costringerà a sfollare 40mila abitanti locali, indigeni e coloni, oltre a distruggere gli habitat di numerose specie. Senza contare la migrazione associata alla costruzione stessa, che richiederà oltre 18 mila lavoratori con circa 80mila posti di lavoro indiretti: si attende l’arrivo di circa centomila migranti, in municipi ogghi abitati da 150mila persone.
Tagliandi corto su critiche e proteste, nell’aprile del 2010 il governo di Brasilia ha infine dato la concessione al consorzio Energàa Norte. Dalla fine di gennaio già 400 persone sono state sloggiate dalle loro case, in alcuni dei quartieri più poveri della cittadina di Altamira, per permettere la costruzione di un canale. Altre 25 famiglie sono state sloggiate presso il sito della diga, nel municipio di Vità³ria do Xingàº. E non saranno gli ultimi. Ora l’Oil ricorda al Brasile di aver aderito alla sua Convenzione 169 (uno dei documenti fondamentali a tutela delle popolazioni indigene), e che questo obbliga il governo a consultare la popolazione indigena prima di intraprendere qualunque progetto di sfruttamento delle risorse naturali nelle loro terre. Sottolinea che l’impatto della diga va oltre la questione degli sfollati, perché modificherà la navigabilità del Xingù, e così anche la flora, fauna e clima della regione.
Il governo di Brasilia non ha apprezzato. La segreteria della presidenza ha replicato che la popolazione indigena è stata consultata, e che il governo di Dilma Roussef riconosce alcuni «errori» ma non ha «sensi di colpa» circa la diga di Belo Monte – e che in fondo la convenzione dell’Oil non è vincolante. Curioso però: non ha commentato il fatto che l’Istituto per l’ambiente del governo stesso, Ibama, il mese scorso ha multato il consorzio Energia Norte di ben 4 milioni di dollari, per il suo ritardo nella realizzazione dellle compensazioni ambientali del progetto.
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