Lo sporco lavoro sul campus

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Generazioni senza futuro. Così è il destino pronosticato per i giovani con un’età  compresa tra i 15 e i 24 anni. Diverso, ma non migliore, è invece il caso dei loro fratelli maggiori. Per loro il futuro è l’eterna ripetizione di un presente marchiato a fuoco dalla precarietà . È questa la prima radiografia che emerge dal XIV rapporto sulla «condizione occupazionale dei laureati» condotto dal AlmaLaurea presentato ieri a Roma. Mai come quest’anno il cauto ottimismo che ha da sempre caratterizzato AlmaLaurea è messo così a dura prova. Se negli anni scorsi il consorzio interuniversitario ha sempre sottolineato i lenti progressi della modernizzazione della formazione universitaria avviata nel 2001 dal «Processo di Bologna», il nuovo rapporto non nasconde la crisi difficoltà  di una realtà , quella università , che rischia di implodere per l’assenza di un progetto di ampio respiro che faccia della cultura e della ricerca il perno per risollevare le sorti di un «sistema paese» in difficoltà , anche se sarebbe più opportuno parlare del suo declino. 
I dati diffusi ieri a Roma nella sede della conferenza dei rettori – il rapporto sarà  discusso sempre a Roma, l’8 marza in un seminario nell’aula magna dell’Università  La Sapienza, a partire dalle 10 – sono relativi agli sbocchi occupazionali, un osservatorio tuttavia importante per comprendere non solo il rapporto tra università  e mercato del lavoro, ma anche della percezione dell’università  come strumento di una mobilità  sociale. Sul primo aspetto emerge una realtà  dove la laurea non è da considerare il titolo di studio che automaticamente consente un ingresso nel mercato del lavoro adeguato alla formazione acquisita negli atenei. Allo stesso tempo, l’università  non garantisce più la mobilità  sociale, a partire dai salari o dai redditi percepiti e dalle mansioni effettivamente svolte.
Cervelli in libertà 
AlmaLaurea si sofferma sull’aumento della disoccupazione «giovanile», che ha avuto un’impennata dopo dopo il 2008, arrivando a toccare la percentuale record del 17,4 per cento nei paesi dell’Ocse per la fascia d’età  dai 15 ai 24 anni (è del 7 per cento per la popolazione con più di venticinque anni). In Italia le percentuali sono di gran lunga superiori – un dato che emerge dai dati Istat parla del 31 per cento di disoccupati giovani , al punto che la cosiddetta «fuga dei cervelli» sta diventando una delle poche opportunità  per i laureati di trovare un’occupazione adeguata al titolo di studio. Sia ben chiaro, rispetto ai laureati italiani, la percentuale di «cervelli in fuga» non ha subito un’impennata, ma quello che sta il rapporto mette in evidenza è la poca capacità  attrattiva dell’Italia di «cervelli in libertà » di altri paesi. Il cosiddetto brain drain è in effetti molto al di sotto dei laureati italiani che scelgono di spostarsi in un altro paese. E viene altresì smentito anche il luogo comune del giovane italiano «mammone». Gran parte dei 400mila laureati, disseminati in 57 università , coinvolti nell’inchiesta affermano infatti che sono disposti a trasferirsi in altre città  diverse da quelle di nascita. Altro dato che il rapporto mette in rilievo è che in Europa la crescita delle occupazioni «qualificate» crescono, mentre in Italia diminuiscono significativamente. E questo vale sia per le lauree triennali, che quelle specialistiche che quelle specialistiche a ciclo unico (medicina, architettura, veterinaria, giurisprudenza, tra le altre). Nell’ultimo anno, la quota di disoccupati con queste lauree passa dal 16,5 al 19 per cento. Altro elemento che emerge è la diffusione a macchia d’olio dei contratti di lavoro «non standard» tra i laureati. Il tempo indeterminato riguarda infatti il 42,5 per cento dei laureati, 4 punti in meno rispetto i dati del 2010. Le forme emergenti del lavoro «non standard» non sono molto diverse da quelle dominanti l’attuale mercato del lavoro made in Italy: a progetto, consulenza, collaborazione coordinata e continuativa, autonomo. Allo stesso tempo, AlmaLaurea non ha dubbi: la deregolamentazione del mercato del lavoro ha come conseguenza una riduzione vistosa dei salari. Il vecchio, e logoro, luogo comune che la laurea sia sinonimo di alti salari viene radicalmente smentito dai dati del rapporto. Per chi entra nel mercato del lavoro, il salario medio è poco più di 1000 euro. E anche le lauree specialistiche non aiutano. La soglia dei 1100 euro viene superata da pochi laureati. Poco meglio vanno alcuni lavori – infermieri, ad esempio – dove è forte la domanda: qui i salari sono poco superiori a quelli di un avvocato o di un medico. 
A corollario del rapporto, i dati sulle differenze tra Nord e Sud, che non si discostano dalle statistiche riguardanti altre sfere della vita associata (consumi, etc…). E di quelle tra uomini e donne. Allo stesso tempo, AlmaLaurea ricorda sommessamente, ma con forza che l’Italia è il paese dove gli investimenti pubblici nell’Università  sono in caduta libera (1,26 per cento del prodotto interno lordo), mentre i fondi delle imprese per la ricerca e sviluppo sono risibili.
Il rapporto di AlmaLaurea – da qui a pochi giorni disponibile nelle libreria per i tipi de Il Mulino – definisce un affresco fosco dell’università  italiana. Certo ci sono sempre riferimenti alle punte di eccellenza della formazione universitaria; così come sono confermati i giudizi cautamente ottimisti su come ha funzionato la riforma del cosiddetto «3+2», ma a differenza degli scorsi anni, il focus dell’analisi è posto su come nell’università  italiana siano all’opera tendenza presenti al di fuori degli atenei. Da una parte, l’immagine di un paese in declino. Parola mai usata dagli estensori del rapporto, ma che si fa strada tra la mole dei dati che il rapporto offre. Dall’altra il legame spezzato tra università  e mobilità  sociale. La formazione universitaria non garantisce più nessuna ascesa nella gerarchia sociale. Da qui una contrazione delle immatricolazioni, altro dato inquietante emergente dal rapporto di AlmaLaurea. Questo non significa che l’iscrizione dell’iscrizione all’università  riflette la divisione in classe della società . Semmai, emerge il fatto che i giovani che si iscrivono negli atenei sono spinti da un desiderio/volontà  di accedere e partecipare alla produzione di quel «comune» chiamato conoscenza, sapendo benissimo che la laurea non è sinonimo di lavoro garantito e ben remunerato. Altro elemento che questo rapporto restituisce come nodo politico è il rapporto tra università  e mondo della produzione. 
Il Bric universitario 
L’obiettivo del «processo di Bologna», è noto, era di costruire le condizioni per una società  della conoscenza, cioè una forma di produzione della ricchezza dove la conoscenza, il sapere erano fattori indispensabili, per ogni paese europeo, di operare in un mondo fortemente competitivo. Quel progetto si è infranto sulla crisi economica, che sta ridisegnando le mappe del potere economico globale. Non è un caso che nella nota classifica delle università  stilata a livello globale, le università  europee, statunitensi devono vedersela con l’appeal che sempre più hanno i campus cinesi, indiani, brasiliani. Allo stesso tempo, i cosiddetti paesi del Bric (Brasile, Russia, India e Cina) stanno investendo moltissimo nella formazione universitaria, mentre le imprese, in questo caso indiane e cinesi, stanno da anni conducendo una campagna di acquisizione di know-how, attraverso l’acquisto di imprese europee e statunitensi.
Sono questi pochi accenni per segnalare che nella realtà  italiana l’effetto congiunto della dismissione degli investimenti pubblici e il disinteresse delle imprese private mettono l’Italia ai margini di quel fenomeno comunemente chiamato delle global university e della circolazione dei cervelli. Nel primo caso, gli atenei diventano nodi centrali nella economia della conoscenza – produzione di sapere, sua codificazione in brevetti e copyright e commercio dei medesimi – e di attrarre ricercatori, docenti e studenti in «fuga» dalla miseria della propria condizione – lavorativa e di studenti – nei paesi d’origine. Da questo punto di vista, il rapporto di AlmaLaurea è davvero specchio della realtà  italiana en general. Allo stesso tempo, mette infatti in evidenzia che è ormai riduttivo parlare dell’università  come «mondo a parte». Le facoltà  e gli atenei sono non solo luoghi di produzione della conoscenza, ma anche nodi di una rete produttiva che vede affiancati poli universitari, imprese e organismi statali. Ed è per questo che la realtà  interessata da questo rapporto – i laureati – possono essere considerati come parte integrante della cooperazione sociale produttiva. Ed è per questo che in tempi passati, ma anche recenti abbiamo manifestato la loro indisponibilità  ad essere ridotti a oggetti passivi.


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